Il telefono squilla. “Pronto, sono una giornalista”. “E quindi?”. Nanda Vigo, architetto e designer, non ama perdere tempo. Soprattutto poco prima della Milano Design Week.
A lei, architetto e gipsy designer delle avanguardie anni Sessanta e Settanta, sarà dedicata, per questa nuova edizione del Salone del Mobile, una mini antologica all’ex spazio Meazza, 5vie, dove verranno esposti due totem Goral del 2005, obelischi in neon che riprendono i segni elementari dell’alfabeto cosmogonico e, alle pareti, le sculture luminose Light Trees del 1984 in collaborazione con l’Archivio Nanda Vigo. Per l’occasione verrà presentata in anteprima “Go with the light”, di Marco Poma/Metamorphosis: una raccolta di interviste registrate durante viaggi e mostre, dal 2005 al 2017. Poi, presso l’Archivio Nanda Vigo di via Gorani 8, di scena alcune sculture intitolate Deep Space. Infine, l’artista che ricerca le culture millenarie dei popoli, ma disegna astronavi, ha progettato per JCP, in collaborazione con Adolfo Carrara Studio Design, SUN-RA, una nuova collezione di lampade.
Chi ha carattere, ha un cattivo carattere. O almeno così pare.
Sono puntigliosa e di forte di temperamento. Quello che devo dire lo dico sempre. E poi sono orgogliosa. Deve considerare che sono cresciuta, come altre, in una cultura di dominio maschile. Non c’era altra espressione: o ti veniva fuori il carattere o niente. Ecco, a me è venuto fuori per amore del mio lavoro.
Le primavere tornano sempre, come il Salone del Mobile.
Ci sono oggi aziende famose che producono oggetti stracopiati dagli originali, soprattutto anni Settanta, e accettano di metterli in produzione, basta solo che siano firmati da nomi stranieri o dai cosiddetti giovani. Se l’appuntamento fosse biennale, ci sarebbe più tempo per riconsiderare i prodotti. E per fare ricerca.
Cosa manca nel design di oggi?
Un confronto con il passato. Non ci si può proiettare in avanti se non si ha conoscenza del passato, certo non studiato su Internet. Crossdisciplinarità è la parola più usata: ma un conto sono le discipline fatte da persone competenti, un altro è l’architetto che scopiazza l’artista. Bisogna studiare, cosa che non fa più nessuno. Per non parlare dell’assurda competizione. Bisogna fermarsi e rifare il punto, a partire dalla storia per arrivare, poi, a un’altra espressione estetica del design.
Se ci fosse un azzeramento nel design, da dove ripartirebbe?
Dall’aspetto sociale, dalle competenze. Che siamo poveri d’idee è fuori discussione, non si vuole far fatica. Le nuove generazioni pensano davvero, con due tasti e quattro linee, di progettare solo sul computer? Così non si va da nessuna parte, senza la matita in mano, interfacciandosi con varie discipline. Dobbiamo ritornare al pensiero, dobbiamo ricominciare a ragionare, a mettere in discussione, a dibattere. Invece di continuare ad aprire scuole e scuolette di design, sarebbe meglio mandare i ragazzi a lavorare direttamente nelle aziende. Oggi sono tutti designer, e nel frattempo l’artigianato, fiore all’occhiello, sta scomparendo.
Anni di lavoro fra design, architettura, arte. Perché oggi si dedica più alle opere artistiche?
Perché ho più libertà, posso fare quello che m’interessa, invece nel design è sempre una questione di prezzi e di materiali. Capita che ti azzerino un progetto o che lo realizzino diversamente dal pensiero originario. La libertà è sempre stata il punto base fin dall’inizio. Nella vita ho corso qualche rischio, ma senza libertà non può uscire niente.
Bisogna fermarsi e rifare il punto, a partire dalla storia per arrivare, poi, a un’altra espressione estetica del design
All’HangarBicocca ha appena chiuso la mostra “Lucio Fontana. Ambienti / Environments”. Tra le opere esposte, anche l’Ambiente spaziale Utopie, presentato nel 1964 alla Triennale di Milano e realizzato da entrambi. Che tipo era Lucio Fontana?
Era un uomo molto aperto, glamour, chic, sempre sorridente e di buon umore.
Nanda Vigo e le sue passioni. Dai suoi amanti in carne e ossa, come Piero Manzoni, alle passioni di oggi.
Le passioni sono deleterie, non sono mai solo “amore”, ma un complesso vortice di competizione, gelosie e violenze. Se si parla di amore, adoro i tramonti africani, l’intelligenza degli uomini delle steppe mongole come la conoscenza infinita degli aborigeni australiani. E ho molto amato i miei compagni cani, rettili, procioni, pappagalli. Per non parlare del deserto. Soprattutto di notte dove si può essere molto vicino ai mondi esterni ed è anche abitato da bellissima gente come i Tuareg o i nomadi Peul. Oggi non posso muovermi, ma la magnificenza del deserto è sempre con me, lo vedo quando lo desidero. Di più non so.
Qual è per lei oggi il concetto di bellezza?
È sempre questione di tempi. Lo sgabello del povero del Cinquecento adesso è diventato un esempio di grande design. Tutto cambia secondo il sistema sociale, adesso il pensiero è globale, non spiccano più le frontiere, la bellezza sta cambiando perché è vista globalmente.
Ci sono dei canoni?
Se inizi a dire canone sei fregato: il canone entra in un sistema. Per questo dico che la libertà è alla base di tutto.
Come è strutturata la sua giornata?
Dimezzata, purtroppo, causa impedimento fisico. Poi quando riesco a stare in piedi faccio una cosa dietro l’altra, ero abituata a essere sempre presente, sempre in cantiere. Per fortuna c’è l’iPhone e la possibilità di scambiarsi le fotografie. E poi sono viva che è già un bel traguardo, tutti gli amici “giusti” della mia generazione ci hanno ormai lasciati e, non ultimo, l’amico Enrico Castellani.
Durante il Salone presenta SUN-RA, piccola collezione di lampade disegnate per il brand JCP.
Questo è design puro, nel concetto. Mi è piaciuta l’idea di Livio Ballabio – l’imprenditore brianzolo che ha fondato il brand nel 2015 – di mettere insieme e integrare fra loro le esperienze di artisti, musicisti, designer. Al Salone si presenteranno con nuove proposte, di cui non sono al corrente perché alcune sono ancora segrete. Sicuramente saranno divertenti.
E con il design delle donne, come siamo messe?
Oddio, oggi c’è la mania di fare le mostre delle donne. È una cosa stupida. Negli anni Settanta ho realizzato mostre al femminile, ma era dopo il 1968. Noi pochissime designer del ’60 abbiamo accettato di lavorare in un regime maschilista, perché ora dovrei rinnegarlo? Abbiamo sprecato tutta la vita a fare le differenze, ora le tirano fuori. È rimettersi nel ghetto.
Allora, rivolgiamo un invito alle donne designer che vivono oggi in un regime maschile e vogliono essere professioniste serie.
Prima di tutto non fatevi famiglia. Certo, la si può fare, ma si resta a mezzo servizio da ambo i lati. Ma prima o poi, la società cambierà e potremmo permetterci buone posizioni e famiglie numerose. O no? Forse una trasformazione ci sarà fra 50 anni. Dipende da quello che le donne vogliono fare, perché per la maggior parte le vedo demotivate.
Non è rassegnazione?
Ma non sanno neanche cosa è la rassegnazione. Se tu afferri cosa è la rassegnazione, ti muovi e ti dai da fare, allora la superi. Se non fai la rivoluzione, non cambi governo.
Mi sembra un’ottima frase per finire l’intervista.
No, aspetti. Finiamola così l’intervista: “Revolucion siempre”.