Quanti animali devono soffrire per fare una sedia? Progettare senza rinunciare alla propria etica si può, e i risultati sono sorprendenti. Lo dimostra la personale di un designer israeliano fuori dai canoni, durante la frenesia usa e getta del Salone del Mobile.
Design vegano – o l’Arte della Riduzione
Al Salone del Mobile, il designer israeliano Erez Nevi Pana dimostra che progettare con integrità è possibile.
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- Annalisa Rosso
- 10 aprile 2018
Si intitola “Vegan Design – Or the Art of Reduction”, la mostra di Erez Nevi Pana da non mancare durante la Milano Design Week 2018. Non capita spesso di imbattersi in un simile concentrato di etica, rigore e ricerca – focalizzata sul sale, in particolare. La personale, curata da Maria Cristina Didero e prodotta dal distretto 5VIE, dimostra come sia possibile progettare senza usare materiali di provenienza animale, né processi che li contemplino. “Ho conosciuto Erez a Tel Aviv, mentre lavoravo alla mostra di Nendo al museo del design di Holon nel 2016”, dice Didero. “Abbiamo condiviso un’avventura nel quartiere ultra-ortodosso della città. Solo in seguito mi ha detto che faceva il designer, così ho scoperto questo suo modo totalizzante di concepire la vita, le relazioni fra le cose, il suo lavoro, l’impegno nei confronti della sua disciplina. La sua attenzione nei confronti del mondo e del progetto è dettata dalla sua natura: unica”.
Insieme, Nevi Pana e Didero, hanno deciso di presentare questo progetto durante il Salone del Mobile proprio per il suo carattere commerciale. “L’industria e i consumatori potranno rendersi conto di quanti elementi di origine animale siano utilizzati, in modi che non ci si aspetterebbe mai”, spiega il designer. Dall’uso della colla e della carta vetrata per fare una sedia fino ai fogli utilizzati per i bozzetti. Una riflessione sui consumi quotidiani, e sulla sofferenza non necessaria che comportano.
Quando ti sei accorto che il design faceva parte del tuo progetto di vita?
Sono cresciuto in un vivaio, io e il mio fratello maggiore eravamo come isolati in quella pacifica bolla verde, è lì che la mia immaginazione ha iniziato a svilupparsi. La noia dei ragazzi in un ambiente di adulti mi ha portato all’evasione, dove è nato il mio design: un mondo di fantasia scatenata.
se quei designer che creano progetti più sostenibili contemporaneamente acquistano carni animali confezionate la sostenibilità sfuma.
Perché un design vegano?
Considero il veganismo un passo verso un futuro più armonioso ed equilibrato. La mia militanza vegana si esprime attraverso il design e l’impostazione accademica. In qualche modo è meno intimidatorio e si adatta meglio alla mia personalità. Occorre guardare oltre se stessi, il dolore e la pena che gli animali vivono ogni giorno solo per soddisfare il nostro palato sono cose che mi sforzo di limitare. Cambiando i materiali che uso nel processo progettuale ottengo un’espressione più adeguata dei miei valori morali.
È anche un modo nuovo di pensare gli oggetti progettati, una prassi etica nei confronti degli animali come nei confronti del pianeta. Leggo continuamente di design verde, o ecologico, ma se quei designer creano progetti più sostenibili e contemporaneamente acquistano al supermercato carni animali ben confezionate (un’altra forma di design) allora automaticamente la sostenibilità sfuma. Non è un segreto che l’industria della carne e del latte ha un’incidenza profondamente dannosa sull’ambiente e sul clima.
La parte più divertente e quella più difficile della tua ricerca.
Credo che la parte più divertente sia la prospettiva di invenzione concettuale che mi permette di viaggiare e di esplorare il mondo. In più il design vegano è una nuova nicchia del mondo del design e porta con sé miriadi di possibilità di dar forma a progetti innovativi, ed è sempre divertente tuffarsi nella conoscenza di un nuovo materiale o di un nuovo strumento.
La parte difficile, che mi dà parecchi guai, riguarda i libri che leggo per il mio dottorato. Attraverso la lettura vengo a scoprire le atrocità e gli orrori cui contribuiamo quotidianamente con i nostri consumi.
Nei tuoi lavori il sale è un materiale importante. Come mai hai iniziato a usarlo?
Al secondo anno del corso di laurea magistrale tornai in patria per una breve vacanza e andai sul Mar Morto a prendere un po’ di sole. Mentre tornavo a casa vidi in mezzo al deserto una solitaria montagna bianca, e capii che era una montagna di sale, sottoprodotto della frenetica produzione di potassio e bromo dall’acqua del Mar Morto. Decisi di conoscere questo materiale per cercare di scoprire un modo sostenibile di renderlo ancora desiderabile.
Mi sono laureato alla Design Academy di Eindhoven con un progetto che proponeva superfici simili al marmo per l’architettura (in lastra e in blocchi) fatte di sale marino puro al cento per cento. La stupefacente risposta ottenuta da questa ricerca mi ha indotto a proseguire nella ricerca di altre applicazioni del sale con la mia personale tecnica di fusione in stampo del sale del Mar Morto. Una delle applicazioni proposte in seguito è un’idea per il nuovo edificio di Frank Gehry attualmente in costruzione ad Arles, per ricoprirne la facciata con le mie piastrelle di sale.
capii che era una montagna di sale, sottoprodotto della frenetica produzione di potassio e bromo dall’acqua del Mar Morto.
C’è qualcosa di particolare nella tua formazione che ti ha spinto alle tue attuali ricerche?
Sono un tipo molto sensibile, credo di avere una spiccata intelligenza emotiva. Ciò mi ha sempre portato a scegliere un particolare stile di vita che riducesse al minimo le sofferenze degli altri esseri. E poi il mio compagno è un maestro di yoga, e ha una profonda influenza sul mio percorso spirituale.
Stai compiendo la tua ricerca di dottorato in Austria. Hai studiato alla Design Academy di Eindhoven e hai lavorato ai tuoi progetti di sale a Ein Bokek, “il punto più basso della terra”, sul Mar Morto. Dove vivi al momento? Una volta hai parlato del tuo “stile di vita nomade”. Questo atteggiamento in qualche modo influisce sul tuo design?
Io abito sulla Terra, che poi è diventata il mio campo da gioco, e questa prospettiva di libertà e di unità dovrebbe essere adottata da un maggior numero di persone. Ovviamente il mio design subisce l’influsso di questo punto di vista. Ho già un programma di lavoro in grado di mantenere questa condizione nomade per almeno due anni da oggi, perciò non sorprenderti se mi incontri dalle tue parti. Considero me stesso un nomade contemporaneo, senza limiti di frontiere, linguaggi o barriere culturali.