“Lo schermo del computer è una finestra, oltre la quale vediamo un mondo virtuale”. Sono le parole dell’ingegnere americano Ivan Sutherland, il primo a costruire – nel 1968 – un casco per vedere immagini create da un computer.
Pokémon Go
Alcune riflessioni sulla app che in 10 giorni ha superato Twitter e Whatsapp, e che, creando una sorta di geografia parallela dello spazio urbano, non induce a isolarsi, ma a guardare la realtà con occhi diversi.
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- Stefania Garassini
- 18 luglio 2016
- Milano
È lunga e appassionante la storia di come quella finestra si è aperta ed è diventata sempre più ricca, coinvolgente e accessibile in modi diversi, dal monitor di un computer al minischermo di un cellulare, da un casco con visori a un paio di leggeri occhialini. Se l’idea di immergersi completamente in un mondo virtuale è tornata alla ribalta di recente con l’esplicito impegno di Facebook in questa direzione, c’è tutto un altro approccio alla questione che parte dall’idea che la realtà non vada sostituita chiudendosi dentro un casco ma piuttosto “aumentata” con informazioni, testi o immagini, che si sovrappongono al mondo reale. Era questo d’altra parte il progetto iniziale di Sutherland e il sogno alla base dei celeberrimi Google Glass (che non sono mai arrivati sul mercato). Anche Microsoft sta investendo pesantemente in questa direzione con gli Hololens, occhiali che permetteranno di vedere immagini tridimensionali fluttuare nello spazio reale, disponibili per il mercato aziendale nei prossimi mesi.
Mentre però entrambe le tecnologie, la realtà virtuale e quella aumentata, stanno ancora cercando un mercato serio cui rivolgersi (agli albori delle ricerche in questo campo si diceva che la realtà virtuale era “una soluzione alla ricerca di un problema”), un gioco appena uscito in Europa e da una decina di giorni nel resto del mondo, sta sconvolgendo lo scenario. Pokémon Go è un successo senza precedenti, disponibile come app per Iphone e Android, ha superato Twitter come numero di utenti giornalieri e scalzato Whatsapp, Instagram, Snapchat e Messenger per la quantità di tempo passata a utilizzarla (una media di 43 minuti al giorno secondo la società di ricerche americana Similar Web).
Il gioco – ideato da Niantic, società nata all’interno di Google e realizzatrice di Google Earth, oggi indipendente, in collaborazione con Nintendo e The Pokémon company – sfrutta le tecnologie di geolocalizzazione e la realtà aumentata per trasferire i celebri minimostri, creati nel 1996, dentro il mondo reale. Per cacciarli occorre muoversi – e parecchio – per le strade, nei luoghi pubblici, negli ambienti naturali. Solo uscendo di casa si possono incontrare i mostriciattoli e vederli sullo schermo del proprio cellulare nella situazione reale in cui ci troviamo. Così può capitare, come a chi scrive, di trovarne uno nel giardino del proprio condominio, o nell’abitacolo dell’auto. Una volta avvistato, il Pokémon va catturato. E per farlo bisogna avere una dotazione di Pokéball, piccole sfere in grado di imprigionarlo.
Anche in questo caso, l’unico modo per procurarsele è guardarsi attorno per individuare un Pokéstop, che in genere corrisponde a un monumento o un luogo di qualche rilevanza, inquadrarlo con il proprio telefono e prelevare ciò di cui abbiamo bisogno. Quando avremo incamerato un numero sufficiente di Pokémon e ci sentiremo pronti, potremo iniziare a combattere nelle palestre di cui sono disseminate ormai le città come i piccoli centri, e lì lasciare che le nostre creaturine sfidino gli avversari. L’ecosistema Pokemon è sterminato, prevede oltre 700 tipi di mostri, evoluzioni da una forma all’altra dei singoli esemplari, strategie articolate per i combattimenti, pozioni di cura, aromi, esche. Una piccola parte di questa complessità non trova posto nella versione Go, che per alcuni cultori è infatti troppo semplificata, per esempio per quanto riguarda i combattimenti.
Ma il gioco ha il merito di spalancare in modo definitivo e per un’enorme massa di utenti quella finestra che fino a oggi era rimasta appannaggio di un pubblico piuttosto limitato. Le applicazioni di realtà aumentata proliferano – basti pensare ai QR code, quei codici che, inquadrati con la telecamera del proprio cellulare fanno apparire informazioni e immagini sovrapposte al punto che si sta guardando – e alcuni giochi avevano già proposto situazioni a cavallo fra reale e virtuale: uno dei più noti è Ingress, messo a punto dalla stessa Niantic. Ma nulla di paragonabile al successo planetario di Pokémon Go, che induce a girare per le strade con il cellulare in mano alla caccia di mostri come se fosse la cosa più naturale al mondo.
Dietro questa apparente semplicità c’è un apparato tecnologico estremamente complesso. Le mappe delle città per esempio, sono quelle di Google e sono di una precisione quasi millimetrica, l’interazione con i personaggi è veloce e fluida, e i comandi per i combattimenti piuttosto intuitivi. Certo, per progredire nei livelli del gioco, e sperare di non sfigurare nelle varie palestre, occorre impegno, ma per divertirsi passeggiando basta veramente molto poco. Succede così di ritrovarsi a passare di continuo con lo sguardo dallo schermo del cellulare all’ambiente circostante in una specie d’infinito gioco delle differenze tra reale e virtuale che induce a guardarsi attorno con più attenzione. Nella ricerca dei Pokéstop si scoprono luoghi o dettagli di cui non si conosceva nemmeno l’esistenza o il nome (a Milano, in via San Michele del Carso, uno corrisponde a una piccola targa che ricorda un giovane partigiano, Mario Greppi, mai notata nei frequenti frettolosi passaggi per quella stessa via). Con il pretesto di accaparrarsi altri strumenti per il gioco, si torna e si ritorna nei Pokéstop e se ne scoprono particolari inediti. Mai camminato così vicino alla fontana sotto casa come quando si è trattato di fare il pieno di sfere e pozioni. Il sistema dei Pokéstop crea una sorta di geografia parallela dello spazio urbano e sembra quasi imporre una propria gerarchia di valore: dettagli di luoghi che non avevamo mai considerato, trasformati in Pokéstop, assumono una loro rilevanza, come il graffito hip hop sull’edicola, sinora mai ritenuto degno di nota, o la piccola teca spersa in un viottolo di campagna, cui avevamo gettato soltanto occhiate distratte. Sarebbe interessante conoscere i criteri che hanno portato a tali scelte da parte dei creatori del gioco.
Ci si sorprende, è vero, a dare un’occhiata attorno cercando immagini virtuali sui muri di casa, o a scambiare le scritte variopinte su un camion per un Pokémon spiaccicato, ma nel complesso l’effetto del gioco sembra essere nettamente diverso da quello che ci si aspetterebbe. La ricerca dei mostri non induce a isolarsi dalla realtà, ma a guardarla con occhi diversi. Come scoprendola per la prima volta. Che è poi – secondo un altro pioniere della realtà virtuale, Jaron Lanier, – il vero scopo dei sistemi di realtà virtuale. Tolto il casco – spiegava Lanier negli anni Novanta – guardiamo la realtà di sempre in modo nuovo. Chi avrebbe immaginato che sarebbero stati i piccoli Pokémon ad aiutarci a farlo?
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