In un saggio giovanile Stanze, la parola e il fantasma nella cultura occidentale (1977), Giorgio Agamben usa la stanza della poesia duecentesca italiana come guida, modello di conoscenza per la sua ricerca filosofica.
Interni italiani
Undici progettisti coordinati da Beppe Finessi e supportati dal filosofo Francesco Cataluccio danno forma a “Stanze, altre filosofie dell’abitare”, alla Triennale di Milano. #21triennale
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- Marco Petroni
- 09 maggio 2016
- Milano
Si tratta di una griglia metrica in cui la poesia, con la sua capacità di creazione di mondi, trova una ragione di appartenenza e allo stesso tempo di libera espressione. Questa strategia intellettuale sembra sottendere all’impianto curatoriale messo in campo da Beppe Finessi nell’impaginare la mostra “Stanze, altre filosofie dell’abitare”.
Undici autori differenti per generazione, linguaggio e approccio progettuale sono stati invitati a disegnare una “stanza” come spazio paradigmatico dell’abitare e a restituire una centralità culturale alla progettazione d’interni. Del resto, la storia del design italiano è segnata dalle occasioni determinate dal progetto d’interni inteso come laboratorio, campo sperimentale per sviluppare idee legate all’oggetto e alla sua determinazione nello spazio architettonico. Un numero considerevole di elementi d’arredo e apparecchi d’illuminazione hanno visto la loro nascita in abitazioni private dove i progettisti hanno trovato terreno fertile per mettere a punto un proprio linguaggio, una propria poetica legata all’oggetto che successivamente ha incontrato una produzione più ampia.
Basti pensare agli interni di Giò Ponti e in particolare a Casa Laporte a Milano, autentico dispositivo abitativo che lo stesso architetto definisce come un sistema filosofico: ”il nuovo non è nella nuova forma per esprimere una cosa ma nel nuovo modo di pensarla”. Ecco che l’abitare, secondo la felice e colta intuizione del curatore, ha la necessità di definirsi come pensiero, come idea di mondi. Per dare una più profonda struttura teorica e narrativa all’apparato curatoriale, Finessi si è fatto affiancare da Francesco Cataluccio che ha associato a ogni stanza un libro di riferimento in cui cogliere assonanze e stimoli di riflessione suggeriti dalle varie sensibilità progettuali coinvolte. La selezione dei testi è racchiusa in un arco temporale che va dal 1985, anno dell’ultima Triennale a oggi, sono libri che hanno costituito momenti importanti di riflessione e dibattito tracciando una traiettoria di pensiero che parte dalla presa di coscienza della crisi della razionalità per arrivare alla critica della modernità e degli effetti della rivoluzione digitale.
Allestita al pianoterra del Palazzo della Triennale, la mostra si apre con un’ampia carrellata di progetti d’interni che hanno segnato la moderna cultura dell’abitare italiano restituendo una molteplicità di approcci che rappresentano l’autentico patrimonio identitario dell’architettura del nostro paese. Una premessa storica attraverso 50 esempi dagli anni Venti a oggi da cui emerge una pluralità di poetiche che oscillano tra rigore e sperimentazione declinando una storia a più voci che non si sedimenta attorno a canoni dominanti ma appare come polifonica e policentrica. Caratteristiche che sono ulteriormente confermate dalle Stanze degli autori invitati.
Umberto Riva assolve al suo compito con l’eleganza della sottrazione, di un gesto essenziale, necessario a sviluppare una riflessione sull’abitare minimo. La petit chambre disegnata da Riva attiva un dialogo aperto con il Cabanon di Le Corbusier mostrandosi immersa in una luce calda e fioca che accompagna la lettura di un sistema integrato di materiali, prevalentemente legno di betulla e arredi che seguono le direzioni e le linee di uno spazio capace di procurare la gioia dell’equilibrio, di un corpo compiuto in soli 16 mq. A sottolineare la proposta, il gesto quasi spirituale dell’architetto milanese, Cataluccio ha indicato come libro di riferimento L’arte di scomparire del filosofo francese Pierre Zaoui, saggio in cui la discrezione viene indicata come strategia di sopravvivenza per sottrarsi alla compulsività del nostro tempo.
Nella sua Risonanze, Andrea Anastasio, filosofo prestato al design definisce una riflessione sullo spazio dell’abitare come luogo dove si consolidano, strutturano o negano le relazioni umane. Una drammaturgia in cui tutti gli elementi si esprimono attraverso la contemporanea affermazione e negazione e danno forma a un’architettura di segni decisi ma non ostentati che lascia intravedere la possibilità di affermare o negare la dimensione dell'ascolto di sé, dell’altro e del mondo. Emerge una scrittura spaziale segnata da una teatralità alla Bob Wilson in cui le polarità declinate mostrano la loro essenza definendosi in tutta la loro purezza. Interno-esterno, microcosmo-macrocosmo, isolamento-relazione, dialogo-indifferenza. Gli elementi di arredo sono essenziali allo svolgimento della vita quotidiana: tavolo-letto-contenitore e sono attraversati da una tenda semi-trasparente che li taglia a metà. È in questo elemento potente e allo stesso tempo leggero che si esprime tutta la sensibilità di Anastasio che lancia un invito a riflettere su un nuovo umanesimo del progetto ma senza clamore e rumori di fondo.
Esplode con tutta la vitalità di chi ama sporcarsi le mani nel traffico continuo delle cose che formano un’architettura la stanza di Duilio Forte, Ursus. Una struttura zoomorfa che riflette sul rapporto tra natura e artificio, alla ricerca di un fare consapevole in accordo con l’ambiente che ci circonda. Legno e metallo sono i materiali primari per dare forma a uno spazio popolato da molti oggetti, sculture, libri e immagini legati al mondo scandinavo, alla mitologia e alla dimensione del viaggio.
Fabio Novembre, con il suo segno neobarocco, ha disegnato un incavo INTRO che rimanda all’origine della vita dove l’essere gettati nel mondo ritrova una sua misura nella suggestione del grembo di una grande madre. La proposta di Alessandro Mendini sembra, invece, negare la possibilità che l’abitare possa trovare una sua forma compiuta e confortevole. Mendini ha scelto per Le mie prigioni un laminato optical in bianco e nero come materiale capace di esprimere questo suo disagio. “Tanto mi ha sedotto il laminato, da porsi come origine di quella ossessione decorativa di infiniti segni…E se cerco il più vero e lontano inizio del mio ergastolo progettuale, delle mie prigioni, lo trovo sopra la superficialità delle superfici, non nel profondo degli spazi e delle forme”.
Francesco Librizzi continua la sua ricerca attorno alla leggerezza strutturale proponendo D1, uno spazio in divenire dominato da forme ellittiche in metallo. Claudio Lazzarini e Carl Pickering con La vie en rose declinano una dimensione spaziale scandita da lastre su cui è applicata una speciale vernice fotovoltaica indicando una possibile traiettoria per un abitare autosufficiente dal punto di vista energetico. Carlo Ratti con il suo studio disegna Lift-Bit, un paesaggio di arredi in movimento che sfruttano la tecnologia per adattarsi a continui mutamenti funzionali.
Elisabetta Terragni immagina nella sua In prospettiva, un avamposto della riflessione lasciando il fruitore libero di scegliere le coordinate del proprio pensare e abitare il mondo. Marta Laudani e Marco Romanelli con L’assenza della presenza propongono uno spazio scenografico in cui mettere in scena un teatro del quotidiano fatto di isole raccolte e ben delimitate da tendaggi in cui vivere le varie azioni da quelle più intime a quelle più familiari. Manolo De Giorgi invita al movimento con Circolare Circolare dove lo spazio si definisce come flusso integrato di funzioni ed emozioni attraverso l’intersecarsi di linee energetiche. Un’ampia rassegna di interni capace di restituire una dimensione dell’abitare contemporaneo che ben si accorda con il tema della XXI Triennale 21st Century. Design after design.
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