Moroso: 60 anni di prototipi

L'allestimento di Moroso all'HangarBicocca per celebrare sessant'anni di attività ha rivelato la presenza di un mito: Marino Mansutti, l'artigiano che da sempre realizza i prototipi della casa friulana. Domus ha deciso di incontrarlo.

Questo articolo è stato pubblicato su Domus 961, settembre 2012

Domus: I designer più famosi la conoscono molto bene, ma lei è sconosciuto al grande pubblico. Provi a presentarsi.
Marino Mansutti: Mi chiamo Mansutti Marino, classe 1941. Ho cominciato a lavorare a 11 anni e mezzo, appena finita la quinta elementare. Neanche un mese di ferie ed ero lì, con mia sorella Diana e Agostino Moroso (all'epoca non erano ancora sposati, erano fidanzatini). Come a tutti i bambini, a me sarebbe piaciuto fare il meccanico. E invece uno si adatta. Ero il penultimo di cinque figli e mia madre mi disse: "Tu devi stare con tua sorella, devi seguirla, starle vicino".

Poi ci si affeziona…
All'inizio mi mettevano un pezzo di legno sotto i piedi perché ero piccolo, non riuscivo ad arrivare al banco di lavoro. Sono stati momenti difficili, perché tutti gli operai erano gelosi del loro mestiere e non mi insegnavano. Così, se volevi imparare, dovevi farlo da solo. Allora io lavoravo di notte, e poi smontavo e rimontavo i pezzi per esercitarmi in modo che loro non si accorgessero che lo sapevo fare. Ho visto il primo architetto nel 1958. Era molto carino, era svedese. Siamo stati tre giorni a lavorare. Lui mangiava panini e beveva birra. Io mangiavo poco: ero magro, piccolo. Mi aveva cercato anche una grossa fabbrica, dove aveva lavorato anche Agostino, la ditta Walker. Erano già in 80, avevano operai specializzati che venivano da tutto il nord Italia per fare i divani di lusso in pelle. Agostino era appena uscito di lì per mettersi in proprio. E io sono rimasto lì, non potevo andare via. Sono diventato capo-fabbrica a 18 anni… E non volevo andare all'estero. Dicevo: "Io devo fare il Friuli, non andare all'estero per fare il Friuli". Della mia età, a Tricesimo, eravamo in 110 ragazzi: siamo rimasti in 12 o 13, il resto è andato in Argentina, Venezuela, Australia…

In apertura e qui sopra: i pezzi della M’Afrique Collection esposti alla mostra "Backstage_Il dietro le quinte" all’HangarBicocca, a cura di Patrizia Moroso e Marco Viola, con cui Moroso ha festeggiato 60 anni di attività. Photo Stefano De Monte

Com'era lavorare in fabbrica a quell'epoca e quali sono le differenze rispetto a oggi?
Era tutto fatto a mano, tenendo i chiodini in bocca. Forbici e martello. Venivano dalla Pirelli dei signori ben vestiti, ricchi. Vendevano la gommapiuma, noi la tagliavamo a pezzettini e loro ci insegnavano come tagliarla in striscioline da mettere in croce per realizzare la bombatura. Sarebbero considerate cose da matti, adesso! Ma il costo dell'operaio era molto basso… La poltrona la devi sempre fare a mano. Non hanno trovato il modo di farla diversamente, oltre a creare gli stampi. Ma la prima la devi fare sempre a mano, come una scultura, per poi fare gli schiumati… Recentemente, invece, ho lavorato con Martino Gamper per la mostra di Milano e lui si è sentito come a casa sua, perché ha visto subito che ero uno che ci sapeva fare. Mi ha dato molta fiducia e ha detto: "Fai tu che sai". È molto simpatico e a me sembrava di tornare indietro. Perché è un ragazzo che sa quello che fa, mentre molti architetti se dici loro di fare in un certo modo ti dicono che non si può. Infatti, lui ha imparato da Ron Arad, che dopo un giorno e mezzo di lavoro sapeva bene cosa fare, e lasciava poi a me il compito di continuare. Arad dà la possibilità di esprimersi, invece molti architetti sono pignoli, stanno a guardare il millimetro. Di solito, gli architetti vogliono delle cose sottili sottili, che sono come delle farfalle, ma si può arrivare solo fino a un certo punto perché poi si rompono.

Dettaglio dei pezzi destinati alla mostra all’HangarBicocca "Metamorfosi_Behind, After or Beyond" per la quale Gamper ha reinterpretato alcune sedute Moroso nel segno della metamorfosi, modificandone forme e tessuti di rivestimento. Photo Giuliana De Luca

Di solito, invece, come funziona? Quali sono il processo d'invenzione di un nuovo pezzo e il passaggio dal prototipo all'industrializzazione?
I designer arrivano con un certo numero di disegni, più o meno precisi. Hanno caratteri molto diversi: c'è quello che parte subito e quelli che non sanno e aspettano che sia tu a dire loro cosa bisogna fare. Fanno delle cose che non stanno in piedi o delle cose che non si possono realizzare, oppure gli spieghi che una cosa deve costare il giusto. Il salotto uno lo prende se vuole, non è come il frigo che lo devi comprare per forza. È una cosa facile a vedersi, ma difficile a farsi. È l'insieme di esperienza, voglia, capacità e fantasia. Non si può andar via alle cinque. Bisogna star lì, fare, perché quando viene un'idea bisogna portarla avanti finché non è finita. Come fanno gli artisti. Ma non voglio essere un artista: voglio essere un bravo operaio, ma uno che cerca di industrializzare. Perché poi, in un'azienda come la nostra, la lotta è sempre quella per un prodotto con costi ragionevoli, in cui gli sprechi devono essere abbassati il più possibile. Ogni designer ha le sue idee. Quelli bravi, che hanno il mestiere, che capiscono subito, e poi quelli che vogliono fare delle super-cose, irrealizzabili, e che magari sono anche brutte… ci sono tante cose brutte. A me piacciono le linee forti. Per fare un divano o una sedia non serve essere architetti. Come diceva Ron Arad: "Basta prendere un sasso, o un pezzo di legno e ti metti qui. Perché cavolo devo fare tutta questa fatica a inventarmi qualcosa?". Deve essere bello, fruibile, grazioso. Ti devi innamorare del pezzo. Se non t'innamori del pezzo quando lo fai, la gente non lo compra. Una volta ho detto a Sottssas: "Architetto, non si sta mica tanto bene seduti su questa sedia (che aveva fatto Iosa Ghini con lo Studio Sottsass)". Lui risponde: "Senti, ragazzo, sulla sedia non ci devi mica dormire, quando hai bevuto un bicchiere o un caffé, alzati! L'importante è che sia bella". Ora è Patrizia che decide, vede se un oggetto, una cosa o un personaggio possono essere interessanti per l'azienda e quindi mi chiama e mi chiede se il tal pezzo può essere prodotto. Dopo dipende molto dall'architetto. Ce ne sono alcuni che arrivano con il pensiero preciso e allora ci si mette poco. E altri che la tirano in lungo. Invece è meglio lavorarci subito e starci poco. Se deve andare, un oggetto, deve andare subito. Io metto su l'oggetto in due, tre giorni. Una bozza per sedersi. Dipende: se c'è da fare una scocca come quelle in mostra, io faccio lo stampo contrario, vado da quello che fa la vetroresina e, in un giorno, lui me lo fa e poi io metto su i piedini. Ho un giro di persone che mi danno una mano e lo fanno subito. Altrimenti, lavoro sul legno e sul ferro, ma con qualcuno che salda, perché l'unica cosa che non so fare è la saldatura. Per la vetroresina faccio lo stampo a mano o con il polistirolo, lo amalgamo come fosse una scultura e faccio l'impronta. Poi un signore che fa cose piccole qui nella zona tira fuori la copia dall'impronta. Questi artigiani non ti dicono mai di no: più fai cose strane, più sono contenti.

Di solito gli architetti vogliono delle cose sottili come farfalle, ma si arriva fino a un certo punto e poi scoppiano, o si rompono
L’installazione di Martino Gamper all'HangarBicocca. Photo Niccolò Rastrelli

Con che cosa lavora? Come cambia il prototipo in fase di produzione?
Io uso ancora gli strumenti di 20 anni fa. Ho una taglierina, una sega, una mola e basta. Prendo il pezzo di legno, taglio con lo scalpello come fa Mauro Corona nei boschi del Friuli. Dopo, naturalmente, s'industrializza. Ma il primo pezzo bisogna scolpirlo a mano… sperimentare, fare. Industrializzare un prototipo vuol dire trasformare il pezzo unico in qualcosa che tutti devono essere capaci di fare e soprattutto capire quali materiali si possano usare: tessuti, pelli, la tenuta nel caso del ferro.

Alcuni pezzi destinati alla mostra all’HangarBicocca "Metamorfosi_Behind, After or Beyond". Photo Giuliana De Luca

Avete tutti la stessa età o ci sono anche giovani? È difficile trovare persone capaci di fare lavoro artigianale?
Ci sono pochi giovani. I giovani hanno il computer, fanno i calcoli con il computer. Io invece faccio il pezzo. Mi siedo, lo guardo se è fatto bene o male, lo gratto, lo limo, lo giro, lo volto e dico: "Ecco è fatto!". Viene subito. Invece con il computer è molto difficile. A eccezione di Tokujin, che non ha sbagliato: ha fatto il pezzo definitivo, una poltrona, alla prima prova. Il salotto è un po' più difficile, perché ti devi sedere, deve essere fatto in un modo adatto e confortevole. È una cosa che deve piacere agli occhi, a te. E poi devi sentirti comodo. Oggi ci sono quei macchinari computerizzati che fanno già gli stampi: ne fai cinque o sei a un milione l'uno… I prototipi manuali costano comunque meno anche a farli adesso. Ma devono essere giusti. Le macchine fanno, ma bisogna saperle usare. Devi conoscerle. Mentre io, quando lavoro, ho già nella testa come deve essere realizzato il prototipo. Dopo una notte o una mattina, lo metto dentro il computer che ho in testa, arrivo al laboratorio e lo faccio lì. Non lo invento in un momento, devo averlo prima nella testa.

Martino Gamper al lavoro sui pezzi destinati alla mostra all’HangarBicocca "Metamorfosi_Behind, After or Beyond". Photo Alessandro Paderni

Non le è mai venuto in mente di fare delle cose? Qual è il mobile-sogno?
Ho delle idee. C'è ancora qualcosa da inventare. Una cosa come… arrivare a casa e sedersi su un prato. Come quando vai in un bosco per un picnic e guardi dove andare a sederti. Vai a cercare un buco, o una cosa piana, o un sasso dove appoggiare la testa. Oggi, la vita a casa è diversa: mangi sulla sedia o, forse, anche sul divano, guardi la televisione e vai a sederti in un posto dove devi essere comodo, dove puoi stare sdraiato. Dovremmo fare un divano dove metti il computer, metti la birra, il caffè… Con Massimo Iosa Ghini, avevo fatto un prototipo, era bellissimo, ma poi è finito lì. Era troppo avanti per certe persone, anche per il mercato forse, perché mica tutti vedono come me, io vedo avanti. Il mondo cambia e noi dobbiamo andare con il mondo. Ma tornare ai salotti quadrati mi sembra di tornare alla Preistoria. In Friuli, c'erano produttori di salotti, sedie, cucine e mobilifici. C'era la Patriarca, la Cumini, la Snaidero, la Fantoni e la Burelli, che aveva lavorato con l'architetto Panelli di Udine, che mi piaceva tanto: era bravissimo. Aveva fatto la Danda, le prime porte in legno naturale per le cucine. I D'Olivo e i Valle non ci sono più. Loro hanno segnato il mondo dell'architettura. La gente diceva che erano matti. Il mondo è fatto di matti, perché altrimenti non va avanti. Stare con quella gente è stato bello.

Marino Mansutti e Martino Gamper al lavoro sui pezzi destinati alla mostra all’HangarBicocca "Metamorfosi_Behind, After or Beyond". Gamper ha reinterpretato alcune sedute Moroso nel segno della metamorfosi, modificandone forme e tessuti di rivestimento. Photo Giuliana De Luca
Martino Gamper. Photo Giuliana De Luca