Valencia 1957. Valencia 2024. Una furia distruttrice e la sua tragica ricorrenza. Un fenomeno dirompente non solo sul piano fisico e sociale, ma anche su quello della percezione e della riflessione umana. L’irruzione dell’acqua, simbolo per eccellenza di vita e di generatività, nel contesto urbano e antropizzato, genera una frattura nell’ordine costituito, una lacerazione nel tessuto della civiltà che induce a interrogarsi sulla precarietà dell’esistenza e sulla relazione dialettica tra uomo e natura.
L’immagine delle strade trasformate in impetuosi torrenti, delle case inghiottite dalle acque limacciose, dei veicoli trascinati come inermi relitti, richiama alla mente, con inquietante puntualità, le scene di devastazione già impresse nella memoria collettiva dalla catastrofe del 1957. Tale inquietante déjà-vu, lungi dall’essere un mero accidente del caso, si configura come un elemento di riflessione sulla ciclicità della storia, sulla persistenza di forze telluriche che sfuggono al controllo umano, e sulla necessità di una riconsiderazione critica del rapporto tra l’uomo e l’ambiente.
Ma la potenza evocativa di queste immagini va oltre la mera cronaca del disastro, penetrando in una dimensione più profonda, in cui l’evento naturale si carica di significati simbolici e archetipici. L’acqua, ambivalente elemento generatore e distruttore, diviene metafora della vita stessa, con il suo incessante fluire tra creazione e dissoluzione, tra ordine e caos. E l’inondazione, con la sua forza dirompente e incontrollabile, crea terrore, sgomento, rovina.
L’arte si nutre di contrasti, di tensioni, di opposizioni. E nella dialettica tra distruzione e creazione, tra caos e ordine, tra morte e rinascita, si dispiega l’infinita ricchezza dell’esperienza umana.
In questa prospettiva, l’arte si pone come strumento privilegiato per indagare la complessità dell’evento, per decifrarne i significati reconditi. Non a caso, l’iconografia del diluvio, della catastrofe naturale, ha attraversato la storia dell’arte, declinandosi in molteplici forme e stili, dal realismo drammatico al simbolismo visionario.
Osservando La distruzione di Atlantide di Nicholas Roerich, con la sua città monumentale che sprofonda sotto l’urto delle onde, cogliamo non solo la rappresentazione di un evento catastrofico, ma la trasfigurazione di questo in un mito, in un archetipo del destino umano. Atlantide, simbolo di una civiltà perfetta e progredita, inghiottita dalle acque in un solo giorno, rappresenta l’eterno monito sulla caducità delle cose, sull’illusorietà del potere, sulla fragilità dell’esistenza. Roerich, con la sua tavolozza accesa e drammatica, con il suo stile visionario e monumentale, ci mostra la potenza incommensurabile della natura, che si abbatte sull’uomo come una forza cieca e inarrestabile.
La potenza evocativa di queste immagini va oltre la mera cronaca del disastro, penetrando in una dimensione più profonda, in cui l’evento naturale si carica di significati simbolici e archetipici.
Ma in quelle onde gigantesche, in quei cieli freddi e duri, in quella città che sprofonda nel gorgo delle acque, c’è anche una bellezza terribile, una grandezza cosmica che ci schiaccia e ci sublima al tempo stesso.
In Dopo la distruzione di Psara di Nikolaos Gyzis, l’attenzione si sposta dal piano cosmico a quello umano. Non più la tragedia di un’intera civiltà, ma il dramma dei singoli individui, delle famiglie smembrate, delle vite spezzate. Gyzis, con un realismo intenso e partecipe, ci mostra i sopravvissuti alla catastrofe, prostrati dal dolore, abbandonati alla disperazione. I loro corpi inermi, i loro volti sfigurati dal pianto, ci parlano di una sofferenza indicibile, di una perdita irreparabile. Ma in quelle figure dolenti, in quei gesti di abbandono, c’è anche una forza inaspettata, una dignità che trascende la tragedia. Gyzis ci mostra l’uomo nella sua nudità, nella sua fragilità, ma anche nella sua capacità di resistere, di sopravvivere, di trovare un senso anche nella sofferenza.
Paesaggio con la rovina di Sodoma e Gomorra di Joachim Patinir, infine, ci offre una lettura morale e religiosa della catastrofe. La distruzione delle due città bibliche, punite da Dio per la loro corruzione e la loro empietà, diviene un monito per l’intera umanità. Patinir, con un linguaggio simbolico e allegorico, ci mostra la potenza distruttrice del fuoco e dello zolfo, che si abbattono sulle città come una pioggia infernale. Ma in quel paesaggio apocalittico, in quei cieli in fiamme, in quelle figure in fuga, c’è anche un senso di giustizia, di purificazione, di rinnovamento. Patinir ricorda che la catastrofe, pur nella sua tragicità, può essere anche un’occasione di redenzione, un momento di passaggio verso una nuova era, una tragedia che palesa errori con la possibilità di comprenderli, modificarli e modificarsi.
Opere che non rappresentano la realtà, ma la illuminano, la interrogano, la trascendono. Opere di grandi maestri che diventano chiavi di lettura per accedere a una comprensione più profonda dell’evento catastrofico, cogliendone non solo la dimensione tragica e distruttiva, ma anche quella rigeneratrice e trasformativa. L’arte si nutre di contrasti, di tensioni, di opposizioni. E nella dialettica tra distruzione e creazione, tra caos e ordine, tra morte e rinascita, si dispiega l’infinita ricchezza dell’esperienza umana.
Immagine di apertura: Joachim Patinir, Paesaggio con la distruzione di Sodoma e Gomorra, 1520 circa