Visualizzando le infografiche presenti in mostra al Gestaltung Museum di Zurigo per il Plastic Garbage Project, potremmo giungere alla conclusione che stiamo assistendo alla nascita di un nuovo continente, il continente plastica. Perlomeno credo che questa possa essere la conclusione al quale potrebbe giungere un geologo del 3012 d.C. Il settimo continente è un galleggiante, che fluttua e pratica una tettonica a zolle accelerata. A quanto pare, infatti, nel bel mezzo dell'oceano si sta formando una specie di isola artificiale larga diverse centinaia di chilometri e spessa diverse decine di metri, costituita principalmente da plastica di vario tipo. Rifiuti che, in un modo o nell'altro, finiscono in mare e che le correnti raccolgono nel bel mezzo degli oceani. La plastica dunque, alla fine del suo ciclo di utilizzo, smette di essere contenitore e comincia ad essere continente: smette di contenere gli oggetti che produciamo e comincia a contenere noi stessi.
Capito questo e analizzate tutte le possibili conseguenze per noi e per l'ambiente, percorrendo la fine della prima parte della mostra mi lascio pervadere da un vago senso di colpa. Non credo che questo sia dovuto all'enorme ammasso di rifiuti installato al centro del museo davanti a una parete specchiata per amplificarne l'impatto scenografico. Non credo sia nemmeno dovuto al ricatto morale tipico di molte mostre su temi ambientalisti che anche questa non manca di innescare. Trovo scorretto teatralizzare la morte di uccelli marini che scambiano tappi di plastica per molluschi e mostrare la radiografia o il video del documentarista che pesca con le pinze pezzi di plastica dallo stomaco di una carcassa. Tanto più che la mostra è gratuita e aperta al "grande pubblico" con spazi per organizzare workshop con i bambini per insegnare loro come costruire oggetti con bottiglie di plastica.
Il continente di plastica
Al Museo dei Design di Zurigo, la mostra The Plastic Garbage Project racconta come come nel bel mezzo dell'oceano si sta formando un'isola artificiale larga diverse centinaia di chilometri, costituita principalmente da plastica.
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- Antonio Scarponi
- 27 agosto 2012
- Zurigo
Il motivo di questo vago senso di colpa è un altro. Il settimo continente, infatti, è una colonia anche italiana. La prima bandiera fu ufficialmente conficcata con il premio Nobel per la chimica a Giulio Natta nel 1963. Irrazionalmente, associo il portato delle scoperte di Natta ai disastri ambientali di Porto Marghera, alle centocinquantasette morti bianche dovute alla produzione di CVM e PVC e a quel maledetto articolo 15 comma 3 del Piano Regolare relativo alle Norme di Attuazione di Aree Industriali che è stato in vigore a Venezia dal 1962 al 1990 e che recita spudoratamente così: "Nella zona industriale troveranno posto prevalentemente quegli impianti che diffondono e irradiano fumo, polvere ed esalazioni dannose alla vita umana e che scaricano nell'acqua sostanze velenose, e che producono vibrazioni e rumori". A questo punto, guardo gli oggetti costruiti dai bambini con le bottiglie e contenitori vari nella sala workshop della mostra e faccio l'inventario mentale di tutti gli oggetti di plastica che circondano la mia quotidianità. Consapevole che il nostro mondo non sarebbe immaginabile senza l'uso estensivo della plastica, penso a tutte le persone che si sono avvelenate la vita producendo "modernità" dagli anni Cinquanta a oggi. Essendo la popolazione del mondo raddoppiata, passando da 3,5 a 7 miliardi nei soli ultimi trent'anni, moltiplicando il numero di abitanti dei paesi dalle economie emergenti per la quantità di rifiuti plastici che ognuno di noi in media produce, ho la netta sensazione che il peggio, anche dal punto di vista della produzione della plastica, debba ancora arrivare.
Mi avvicino alla seconda parte della mostra dove apprendo le caratteristiche di tutti i vari polimeri, i loro pro e i loro contro nei confronti della nostra salute e di quella dell'ambiente. Come progettista non riesco a salvarne nemmeno uno. Mi è stato detto che il problema è il rifiuto e che bisogna produrne meno. Mi sono stati mostrati accorgimenti banali che, per quanto mi è possibile cerco, nel mio piccolo – con pudore e con intimo orgoglio – di rispettare da sempre: viaggiare con una bottiglia da riempire di volta in volta, avere sempre con me un sacchetto pieghevole per fare la spesa e altri accorgimenti di igiene ambientale che credo ogni persona con un minimo di senso civico oggigiorno rispetti.
Confesso che mi sarebbe piaciuto vedere una mostra di soluzioni, anche ipotetiche, e invece esco con una sensazione di poetica disfatta.
Compiuto questo viaggio nelle contraddizioni e nei paradossi del quotidiano che ruotano attorno alla plastica, mi ritrovo con più dubbi che certezze. Suppongo che l'obiettivo sia quello d'informare e di educare. Tuttavia mi chiedo se sia il modo migliore per farlo. Ma soprattutto mi chiedo: possibile che nessuno stia lavorando a un materiale che possa sostituire la plastica come la conosciamo oggi? Confesso che mi sarebbe piaciuto vedere una mostra di soluzioni, anche ipotetiche, e invece esco con una sensazione di poetica disfatta. Devo produrre meno rifiuti. D'accordo, questa regola vale sempre. Ma come posso vivere, lavorare, che nel mio caso vuole dire anche progettare, senza plastica? Non abbiamo più tempo. Mi sarebbe piaciuto trovare delle risposte, ma ancora una volta mi devo arrangiare e proiettare le mie speranze nella rete, con l'intima aspettativa di trovare qualche riscontro, magari Made in Italy.