Siamo in Friuli, agli estremi di quel
famigerato territorio noto in Italia
come Nord-Est, forse l'ultimo baluardo
della piccola e media industria
italiana. In questo prezioso –
ma anche molto logorato – territorio,
per decenni fucina di laboriose
risorse umane, dove la produzione
del mobile si era sempre limitata a
pochi elementi (la sedia soprattutto)
secondo modelli convenzionali,
si è formata ed evoluta, con la svolta
epocale degli anni Ottanta, una delle
aziende più significative per la recente
storia del design in Italia e non
solo: Moroso. Sono molte le caratteristiche
che avvicinano quest'azienda
ai modelli più consacrati e ormai
classici della storia del design italiano:
il laboratorio artigianale, la conduzione
familiare, il radicamento al
territorio, lo spirito innovativo, la
passione per la ricerca, l'attenzione
alla "qualità del fare", spesso esercitate
nell'esperienza di grandi progetti
su misura.
Nel percorso evolutivo di Moroso si
riconoscono però altri nuovi elementi
apportati al DNA del "modo
italiano" di fare design, riflesso dei
mutamenti avvenuti a partire dagli
anni Ottanta: un più aggiornato spirito
manageriale e di comunicazione,
la visione internazionale e globalista
delle culture dell'abitare – di
quelle estetiche, ma anche del sistema
delle merci (da ciò la vantaggiosa
'marginalità' rispetto all'asfissiante
centralità del distretto Milano-Brianza)
–, la capacità di investire sempre
sull'innovazione delle tecniche produttive,
il disinibito interesse e la curiosità
verso le ricerche più decorative
– per una parte – e artistiche per
l'altra (anche se tutto ciò oggi risulta
molto sfumato), inseguendo nuovi
linguaggi, ultime mode sempre
più leggere e veloci.
Fare la recensione di un'attività produttiva
significa in primo luogo valutare
storicamente le fasi di crescita
e di evoluzione di un certo modo di
dare una visione degli usi e delle forme
delle cose necessarie all'uomo
del suo tempo: per vivere, per abitare,
per comunicare, per esprimersi
e naturalmente anche per produrre
e commerciare. Questi racconti o visioni
derivano dal lavoro di diversi
autori (imprenditori, designer, responsabili
di produzione) e si concretizzano
in singoli pezzi – che diventano
collezioni di prodotti, cataloghi
– che bisogna leggere attentamente
per riconoscere i caratteri distintivi
che costituiscono lo spirito
di quella particolare e originale visione
del mondo.
Non intendiamo qui ripercorre la
storia degli ultimi trent'anni di Moroso,
convinti che soffermarsi allo
stato dell'arte più recente dell'azienda
fornisca dati significativi. Per questo
abbiamo scelto di leggere la produzione
dal 2008 al 2010.
La lettura d'insieme non è facile: potrebbe
dirsi la composizione tipica
di un romanzo postmoderno, un
ipertesto che fonde il classico con
l'esotico, il poetico con il kitsch, il
minimal con il romantico-decorativo.
Intendiamoci, questa idea di avere
in catalogo collezioni di oggetti
disegnati da diversi designer che
esprimono visioni molto diverse fra
loro, può dirsi una delle invenzioni
della produzione del design italiano
che possiamo far risalire alla Cassina
di Ponti, Magistretti, Bellini o Pesce.
Però una volta questi designer interpretavano
un mondo in divenire e
gli davano una loro forma rappresentativa
o evocativa che, pur modificandosi
nel tempo, rimaneva comunque
riconoscibile: più per il modo
di porla che per il segno.
Forse sono i tempi eccessivamente
veloci di oggi, come quelli dettati
dalla moda, a rendere quasi stroboscopica
la visione di nutrite collezioni
annuali che incalzano una dietro
l'altra. Per fortuna i singoli prodotti,
così come succede nel caso dei libri, si possono leggere separatamente, e
allora la lettura si fa più ordinata e
specifica.
L'autore di punta delle edizioni Moroso
è oggi più che mai Patricia Urquiola,
celebratissima designer nata
si può dire con Moroso, la quale da
sola copre quasi il cinquanta per
cento dell'intera collezione degli ultimi
anni. Certamente il talento e
l'esperienza non le manca, ma l'indubbia
capacità di affrontare ogni
tema rischia di produrre a volte un
freddo esercizio di stile che contrasta
rispetto ad alcune prove più calibrate
e innovative. L'evoluzione
della bella struttura Antibodi nella
collezione Tropicalia, per esempio,
ci convince pienamente, mentre si
rimane un po' perplessi davanti alla
sequenza dei sistemi di imbottiti, per
quanto dignitosissimi, Bohemian,
Field, Fergana, Spring o Rift, dove
la citazione del sistema d'imbottiti
Hilly di Castiglioni meritava di essere
evocata con più cura. Naturalmente
capiamo benissimo che per
tenere in piedi un'azienda, oggi più
che mai, occorrono anche certi prodotti
più recepibili da un vasto mercato
e in questo senso tanto di cappello
alla Urquiola, che si fa carico
di questo importante impegno. Inevitabilmente,
però, anche la matita
migliore rischia di usurarsi o – peggio
– di adagiarsi in compiacimenti
stilistici.
Una questione analoga si ripropone
anche nel caso di Ron Arad, che dopo
la riuscita serie d'imbottiti Misfits
e l'affascinante sedia Wavy del 2007,
tenta la strada dell'ortogonale-geometrico
e del tema dei pixel per il
sistema di imbottiti Do-Lo-Rez: ci
sembra perdersi in un esercizio di
stile – per altro tipico degli anni Settanta
del secolo scorso – senza riuscire
a metterci lo scatto necessario.
Più equilibrata, ma anche un po' sospesa
per aria, appare la puntuale
presenza di Tokujin Yoshioka, del
quale ci appare ancora come più riuscita
la poltrona Panna chair, rispetto
ai preziosi ed eterei divani Paper
Cloud e alla poltroncina Bouquet.
Comunque sia, la forza storica di
Moroso, riconfermata anche in questi
ultimi anni, è quella di aver sempre
aperto la propria ricerca e produzione a giovani autori ancora sconosciuti,
portatori di nuovi linguaggi,
anche se purtroppo non sempre
di nuove visioni dello spazio dell'abitare.
Sicuramente molto affascinanti,
soprattutto matericamente, appaiono
i pezzi disegnati dal duo indo-
britannico Nipa Doshi e Jonathan
Levien: i divani My Beautiful
Backside, le sedute Paper Planes e il
daybad Principessa.
Riuscito ci è apparso il lavoro di ricerca
sulla tecnica dell'intreccio a
mano di fili di plastica usati tradizionalmente
per la realizzazione di reti
da pesca, iniziato con grande slancio
dalla vivace e coinvolgente collezione
Shadowy di Tord Boontje, ripresa
anche dal duo newyorkese Bibi Seck
e Ayse Birsel con l'esotica e avvolgente
poltrona Madame Dakar (si
direbbe un omaggio agli oggetti
'africani' di Pierre Legrain del 1923)
e le razionalissime poltroncine, a
dondolo e non (un elegante omaggio
alle chaise-longue di Jean Burkhalter
ed Erich Dieckmann del
1930-31), comprese nella M'Afrique
Collection.
Abbiamo avuto modo di apprezzare
anche l'eleganza poetica di Tord
Boontje nel re-design della sedia e
dei tavoli Rain Collection – ispirati
a quelli analoghi in lamiera verniciata
dei parchi francesi – e la metafisico-
surreale visione del designer veneziano
Luca Nichetto, che coinvolge
il fotografo Massimo Gardone
per i tavoli Black Stone. Gradevoli
appaiono pure, soprattutto per il
rapporto tra forma e tecnologia costruttiva,
la poltroncina Tennis disegnata
dal giovane designer polacco
Tomek Rygalik, la sedia Nanook del
designer svizzero Philippe Bestenheider
e il tavolino Twist again
disegnato dalla designer slovena
Karmelina Martina.
Una piccola nota finale di merito la
dedichiamo alla Diesel Collection (a
esclusione del mobile contenitore),
che ufficialmente non porta il nome
del designer: immaginiamo quindi
che sia un progetto da intendersi,
come si diceva una volta, su disegno
dell'ufficio tecnico, il quale certo
non manca di esperienza e sensibilità
al disegno del buon prodotto.
Block Notes #2: Moroso
Per la recensione dell'attività produttiva di Moroso abbiamo scelto di leggere la produzione dell'azienda degli ultimi tre anni.
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- Giampiero Bosoni
- 24 ottobre 2010
- Cavalicco