La mostra "The art of fashion: Installing Allusions" è una narrazione densa e complessa. Ricca di richiami e riferimenti all'opera come dispositivo capace di attivare ogni volta, a seconda del contesto, nuove interpretazioni e nuovi reticoli di senso. Ma, questo progetto, definisce anche una nuova consapevolezza della pratica del costruire mostre come atto creativo, capace di fare mondi in cui ogni oggetto, le relazioni che intrattiene con lo spazio e con le altre opere, rivelano ogni volta nuove direzioni in cui avventurarsi. La mostra non è una mostra d'arte e non è una mostra di moda. Approfitta di uno spazio seminale per i curatori ("A- Historical Sounds" di Harald Szeemann, "9/4/1615 Martin Margiela" per citare due tra le mostre più conosciute) per dare al progetto la prospettiva del nostro tempo. Un tempo in cui è sempre più difficile definire e chiudere le diverse pratiche creative. Incontro Judith Clark per farmi raccontare la mostra, ma anche confrontarmi con lei ancora una volta sul tema, rimasto legato a vecchi stereotipi, del rapporto arte moda. Mi interessa, come curatrice di mostre di mode, ma anche come critico d'arte militante passato alla moda, convinta che sia uno dei più straordinari punti di osservazioni sulla contemporaneità. In verità non è un solo incontro, ma molti, in città diverse da Venezia a Londra, da Treviso a Roma per concludersi a Rotterdam. Maria Luisa Frisa
"Non sono realmente interessata a ridescrivere i designer come artisti" (Judith Clark)
Curare mostre, mettere in scena abiti
Credo che la mostra contenga qualcosa che mette in discussione le mostre a tema: qualcosa che riconosce le limitazioni che un tema impone a una mostra. Se facciamo una panoramica molto ampia, c'è stato un cambiamento dalla mostra cronologica alle grandi mostre a tema degli anni Ottanta; questa rassegna cerca soluzioni alternative, altre idee rispetto ai percorsi già battuti. Il pensiero, ad esempio, torna alle risonanze del curatore di mostre Szeeman, dove lo spazio, come il piedistallo, è un elemento attivo, e mi chiedo cosa questo significhi quando lo si applica ad un abito. Penso che, se è difficile individuare l'inizio e la fine di una sezione, ciò apre tuttavia delle opportunità – di collegare tutti gli oggetti e, ad un altro livello, nessuno di loro, di interpretarli tutti singolarmente. Ciò lascerebbe al visitatore la creazione di un sistema. Sappiamo tutti che, in un modo o nell'altro, ogni cosa è collegata; in questa specifica mostra ho collegato gli oggetti mediante una sorta di struttura metallica che ricorda la forma delle costellazioni – esse permettono di leggere qualcosa che è immenso o infinito. Perciò, seguire il filo delle altre mie mostre ha a che vedere sia con il modo in cui gli oggetti sono collegati che con gli oggetti stessi – anche se sono gli oggetti a fornire l'indizio: non è ideato nel nulla.
La qualità dei luoghi
Alla Judith Clark Costume Gallery lo spazio stesso era così angusto che tutto era come un unico insieme. E questo era il punto: era come muoversi su un piedistallo. Come tutti quelli che aprono una galleria, ho vissuto l'esperienza di creare un nuovo codice per un nuovo spazio e ho avuto la sensazione di iniziare dal nulla, con l'aggravante che non esistono gallerie dell'abito che non siano commerciali. La Bodon Gallery (dove questa mostra è stata organizzata, ndr) è esattamente il contrario, è ispirata dalla storia delle mostre e dalla mostra del design del museo Boijmans. Questo è ciò che mi ha emozionato di più della mostra che mi è stata proposta: il fatto che debba essere allestita lì. Non c'è studente che non citi la mostra di Martin Margiela al padiglione Boijmans curata da Thimo te Duits, non c'è studente curatoriale che non abbia sentito parlare dei progetti di Szeemann o di Greenaway alla Bodon. Amo il fatto che in uno spazio puoi entrare in contatto con le mostre che ti hanno preceduto, che hanno occupato quello spazio ed hanno creato dei ritmi con gli oggetti che vi si trovano.
La moda dell'arte
A essere sinceri, il dibattito arte/moda non mi affascina, ma è interessante fino a quando non tramonterà. Ho avuto una lunga discussione con Peter Wollen su come tale dibattito, nel 1999, dieci anni fa, abbia portato alla sua "Addressing the Century: 100 years of Art and Fashion". E ciò avveniva nella scia della Biennale della Moda di Firenze di cui so che ti sei occupata, e nella definizione c'è ancora lo stesso senso di ansia. "Addressing the Century" si occupava sia dell'arte che della moda, delle caratteristiche formali e tematiche comuni. Questa riguarda invece l'eloquenza della moda e, come suggerisce il titolo, delle sue allusioni. Riguarda la moda. Non usa la terminologia della storia dell'arte, non è certamente un'opera di ridefinizione, come quella di Louise Bourgeois o di Jana Sterbak, come potrebbe esserlo una nuova mostra di arte contemporanea, che getta una nuova luce sulle loro opere. L'unione delle due discipline è utilizzata per illustrare, innanzi tutto, le preoccupazioni del mondo della moda. La mostra dà fiducia agli stilisti, con sempre maggiore preoccupazione, suppongo, facendo venire in mente ai visitatori delle preoccupazioni analoghe, ciò che li accomuna, se esiste, e con l'aiuto della Fondazione H+F, concede ai designer la libertà di portare all'estremo le loro idee. Così la mostra, in un certo senso, ha creato a sua volta una moda più concettuale, più estrema. Ciò è abbastanza recente. Siamo abituati a vedere i modelli da passerella finire dritti nelle collezioni dei musei, ma meno spesso vederli escludere del tutto la passerella. Se i modelli creati dagli stilisti sono concettualmente complessi e impossibili da indossare, ci troviamo di fronte a una crisi della categoria. Di questo, ne sai più di me, Maria Luisa, ma so che ciò che desta il tuo interesse è quello che accade concettualmente dopo la produzione e non prima.
Allusioni e risonanze. Costellazioni e geografie
Le mostre sono importanti e la prima visione di un'opera d'arte è assolutamente indispensabile nella definizione di quell'oggetto. È stato fantastico partecipare all'inserirsi di questa mostra tra la mostra del design come insieme e le esigenze dell'installazione dei designer, in particolare dei nuovi incarichi. Di solito, hai degli oggetti predefiniti, dal momento che inizi a progettare con un elenco predefinito – ecco gli oggetti – o delle installazioni che cambiano durante il percorso, fino a poche settimane prima dell'inaugurazione. A volte aumentano di 3 o 4 metri, a volte richiedono un'altra sala, a volte degli schermi. Negoziare gli spazi mi fa pensare sempre a ciò che mi disse Anna Piaggi delle sue "doppie pagine" su Vogue Italia, che era un po' come un'occupazione abusiva in uno spazio limitato. Qui si trattava di un'occupazione reciproca, gli stilisti e io ci ospitavamo reciprocamente via via che procedevamo.
Per me è stato interessante vedere come i designer entrano in sintonia con lo spazio che li circonda, le conversazioni non vertono mai soltanto su un oggetto in senso fisico: le sculture di Naomi Filmer accentuano lo spazio attorno al volto, inalando ed espirando l'aria; il film di Anna-Nicole Ziesche, Childhood Storage ci ha fatto mettere a testa in giù a contemplare il soffitto della stanza da letto della sua infanzia; Viktor e Rolf hanno costruito un corridoio a spirale per disorientarci, prima di scoprire la loro bottiglia frammentata: questo fa di loro dei curatori, dei progettisti di mostre? Esistono tante altre definizioni, al di là di artista o stilista.
Personali genealogie
Non si può sfuggire alla propria storia e al proprio contesto, scorrendo l'elenco degli stilisti, con molti dei quali ho collaborato per oltre 10 anni. Dai Rees, Simon Thorogood, Naomi Filmer hanno conservato la loro inclinazione concettuale, spesso finanziando la loro attività con il lavoro accademico, e Anna-Nicole Ziesche, il cui lavoro è intransigente e profondo, la prima studentessa a laurearsi al MA Fashion at Central Saint Martin con un film anziché una collezione; è stato entusiasmante inserirli in una trama più ampia.
La mostra, come tutte le mostre, rivela le affinità e fa emergere le preferenze del curatore. Feminist Art, installazione dei primi anni Settanta, è saltata fuori nelle conversazioni innumerevoli volte (è dove ci sono più sperimentazioni concettuali che utilizzano l'abito, per ovvie ragioni) e la mostra, dato che riguarda l'allusione, consente di seguire un corso di pensieri e di popolarlo con altri oggetti degli elementi della mostra: per esempio, so che il modo in cui sono drappeggiate le catene che sostengono l'opera di Dai alludono ad Untitled Rope di Eva Hesse, del 1970 – a cui ho pensato quando ho visto l'installazione di Francesco Vezzoli per Greed, al Gogosian che tu, Maria Luisa mi hai portato a vedere a Roma, dove uno dei poster riproduceva Eva Hesse. Gli oggetti sono collegati da una storia personale – non è ovvio che le catene drappeggiate debbano avere un collegamento con una bottiglia di profumo nella sala accanto, ma questo è il modo in cui le mostre sono sempre organizzate, modi di cui il visitatore è soltanto parzialmente consapevole. Ecco perché, per me, è strano quando le mostre cercano di spiegare il significato con dei pannelli di testo – come se si potesse dare una spiegazione chiara delle vere motivazioni.
Opere, museo, collezionismo, committenza
La mostra si situa in un punto interessante all'interno del dibattito curatoriale. Credo che ciò la renda ancora più stranamente contemporanea; ci sono le nuove committenze che parlano di moda, escludendo il mercato, c'è una selezione tratta dall'archivio del museo, che ha una sua storia ventennale, e come curatore, è sempre interessante scegliere, e dunque in qualche modo riconfigurare, un archivio. Questa mostra ha prestiti internazionali straordinari: Cell XIX di Louise Bourgeois, Remote Control Crinoline di Jana Sterback, il soffice cuscino anatomico di Helen Chadwick risalente ai primi anni Settanta. Oggetti che sono stati evocati durante le conversazioni e nelle descrizioni delle nuove committenze; è stato come colmare un vuoto all'interno di un albero genealogico, pur sapendo che non è che una goccia nel mare. I pezzi sono tutti esposti in una sala incolore, su piedistalli incolori, come per sottolineare le qualità scultoree o formali degli oggetti. Le mostre sulla moda sono spesso troppo timorose degli oggetti non mediati, temono la competizione con la passerella. Sono rimasta sconvolta che l'ufficio marketing del museo abbia scelto l'immagine di una passerella per la campagna di stampa: è stato come un cedimento. Judith Clark
Maria Luisa Frisa, critico e curatore indipendente, è interessata alla complessità dell'immaginario contemporaneo e ai continui sconfinamenti tra moda, arte e design e comunicazione. È direttore per Marsilio Editori della collana Mode. È direttore del corso di laurea in Design della moda dell'Università IUAV di Venezia.
Judith Clark, curatore, insieme a José Teunissen di "The Art of Fashion: Installing Allusions" e progettista dell'allestimento, è una delle figure di riferimento nella giovane storia del fashion curating. Se da una parte ha curato mostre fondamentali come "Spectres: When Fashion Turns Back" o Anna Piaggi: "Fashion-ology" che cambiavano e spingevano avanti in territori sconosciuti I rapporti tra abiti e museo, tra memoria e immaginazione, tra critica e storia dall'altra è stata la prima a sperimentare la moda come opera-manufatto nella sua galleria: Judith Clark Costume Gallery a Londra. Uno spazio dove dal 1998 al 2002 ha portato la moda e l'arte fuori dai vecchi schemi stereotipati in un territorio altro dove potessero dialogore senza pregiudizi. Clark che è laureata in architettura è direttore del MA Fashion Curating del London College of Fashion.
On The Art of Fashion. Installing Allusions
Doppia presentazione della mostra che inaugura oggi al museo Boijmans Van Beuningen di Rotterdam. Testi Maria Luisa Frisa e Judith Clark. Foto Francesco Casarotto
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- 18 settembre 2009
- Rotterdam