Marfa è una ignota cittadina del deserto texano in fase declinante, quando negli anni ‘70 Donald Judd, uno dei padri del minimalismo, decide di stabilirvisi. I decenni successivi saranno marcati da un decollo della sua notorietà, fino a crearne una mitologia che oggi costituisce un tema anche di discussione. Prima l’attività di Judd, poi la sua Chinati foundation e, dopo la sua morte avvenuta nel 1994, lo sviluppo del mito di Marfa come città d’arte che attrae opere iconiche anche nel territorio esteso – Prada Marfa, la fake boutique in mezzo al deserto con sole scarpe destre, destinata a dissolversi ma fotografata da Beyoncé – l’hanno consegnata alla contemporaneità come realtà urbana che si trova ad affrontare anche problemi di eccessivo rialzo dei prezzi, una gentrificazione del popolo dell’arte proveniente dalle grandi città.Judd aveva invece pensato a trasformare la sua presenza in un generatore di prosperità e di servizi per Marfa, oltre che un catalizzatore di opere e artisti. Dagli anni ‘80 pensa ad una grande installazione affidata a un altro grande nome, Dan Flavin: la realizzazione si rivela però lunghissima, e si compie dopo la sua morte, nel 1996, arrivando all’inaugurazione nell’ottobre del 2000. Due mesi dopo Domus la presentava, su un numero 832 che la eleggeva anche a immagine di copertina.
Judd e Flavin, alle origini del mito di Marfa
Dall’archivio Domus, l’installazione luminosa con cui Dan Flavin consacrava la cittadina texana, scelta dal minimalista Donald Judd a sua residenza, a destinazione ancora oggi di culto per il mondo dell’arte. Con risultati non del tutto prevedibili.
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- Deyan Sudjic
- 18 settembre 2023
Marfa, Texas: il sogno di Judd e Flavin
Marfa è lontano da tutto. Prima bisogna affrontare un volo di undici ore dall’Europa fino a Houston, su un Boeing 747. Segue un volo intermedio sopra le desolate distese color sabbia del Texas occidentale, fino a El Paso; a questo punto ci sono ancora da fare quasi cinquecento chilometri. È uno dei luoghi – sempre, più rari al mondo – che, pur non essendo letteralmente inaccessibili, sono ben più distanti di un semplice viaggio in aereo. Per andarci bisogna avere una ragione precisa. E questa lontananza è stata uno dei motivi di attrattiva per Donald Judd, che più di vent’anni fa c’era andato ad abitare. Per questo e per la luce, oltre che per il basso costo del terreno: se ne può acquistare ancor oggi a meno di 100 dollari l’acro (poco più di mezzo milione di lire l’ettaro). El Paso è la gemella ricca di Ciudad Juarez, dal lato messicano della frontiera. Vanta un aeroporto color adobe, il mattone cotto al sole delle costruzioni tradizionali messicane, con il tetto verde di rame, nel disperato tentativo di creare un minimo di senso del luogo. Ma è circondato da giganteschi cartelloni pubblicitari e da un pasticcio di architetture da strada commerciale. Dà la sensazione di grezzo e di effimero di una città nata da un boom economico. E poi, prima di arrivare a Marfa, ci sono ancora quattro ore di auto attraverso gli altopiani, lungo il Rio Grande.
I cinema multisala, i sushi bar per automobilisti e le bancarelle di fuochi artificiali di El Paso, incrostati come cozze su entrambi i lati dell’autostrada, finalmente lasciano il posto a un paesaggio di solitudine, di cieli vasti e a una strada orlata da pali telegrafici che si allunga diritta fino all’orizzonte, alla maniera celebrata da innumerevoli western. Eppure ci sono tracce frequenti di insediamenti umani. Una casa mobile, ora decisamente non più mobile, circondata dai detriti quotidiani di un parcheggio di roulotte: lavatrici arrugginite, vecchi frigoriferi e cimiteri d’automobili. Bisogna passare sotto le forche caudine della Guardia di Frontiera (corpo paramilitare che istituisce regolarmente posti di blocco su ogni strada ipoteticamente percorsa dall’immigrazione illegale) e che è diventata uno dei maggiori datori di lavoro della zona. Finalmente ecco Marfa, popolazione duemila e quattrocentoventiquattro abitanti, fondata sul finire dell’Ottocento intorno a un bel tribunale che è il punto focale di una piazza cittadina, tipica degli insediamenti texani dell’epoca. Ci sono un bar, un paio di motel, un liceo. È la cosa che assomiglia di più a una città in un territorio di oltre quindicimila chilometri quadrati, ma è il contrario dell’America dello strip in espansione. Ci sono marciapiedi su cui si può camminare da un caffè a un emporio a orario continuato, anche se pochi lo fanno. E non c’è niente di simile a una via commerciale. Troppo spazio e troppo pochi abitanti. È una città il cui breve momento di gloria fu negli anni Cinquanta, quando James Dean ed Elizabeth Taylor ci passarono dieci giorni per le riprese del film Il Gigante. Ma in realtà è rimasta addormentata dagli anni Trenta, quando si spense la scintilla di entusiasmo che privilegiava il consolidamento della città.
Marfa, con un piano urbanistico delineato con lo stesso vigore pionieristico che riuscì a trasformare molti avamposti un tempo altrettanto remoti in metropoli in espansione, è nata dalla ferrovia. Sorge in un vasto territorio dedicato all’allevamento del bestiame, sulla strada per il Messico. Nelle alture a sud ci sono miniere d’argento, scenografie epiche e un grande parco nazionale. Ma lo spirito urbano della costruzione qui non ha mai preso piede. Si sente che la città lotta per non scivolare nello stesso oblio che ha travolto le miniere e le ha trasformate in città fantasma. E tuttavia, nonostante la lontananza, Marfa possiede un carattere sorprendentemente cosmopolita. Ci sono radici spagnole e messicane, e un nome curioso: Marfa è il nome dato da Dostoevskij alla domestica di famiglia dei Fratelli Karamazov. Forse fu suggerito dalle inconsuete buone letture della moglie di un ferroviere, quando, alla fine dell’Ottocento, la condizione di capolinea trasformò l’insediamento in una vera città. Qui l’esercito degli Stati Uniti costruì Fort Davis, dove nel corso di entrambe le guerre mondiali furono internati i prigionieri germanici: ancora vi si vedono le tracce di graffiti in tedesco.
È anche la città che Donald Judd ha scelto come scenario di uno dei più interessanti progetti artistici del Ventesimo secolo: ha vissuto e lavorato qui almeno per qualche mese l’anno, dal 1979, acquistando un’eccezionale collezione di proprietà immobiliari: case, fattorie e lo stesso Fort Davis. Fu qui che trasferì la sua collezione d’arte, dai disegni di Rembrandt alla scultura contemporanea: qui si dedicò all’arte, e questo fu il luogo in cui si avvicinò alla pratica dell’architettura più di ogni altro artista della sua generazione. Aveva in mente con chiarezza accecante l’idea di creare un luogo che fosse un punto di riferimento assoluto per la sua arte e per quella di un gruppo di suoi contemporanei: che, come usava dire, sarebbe sopravvissuto come unità di misura per la definizione dell’arte al di fuori dei musei e al di fuori del sistema commerciale delle gallerie. Ciò significava lavorare con il paesaggio e con i superstiti edifici della base militare, progettando edifici completamente nuovi e i loro interni, creando e dando collocazione con grande cura alla propria arte. Il fatto davvero notevole è il successo dell’operazione e come, a sei anni dalla morte dell’artista, il luogo continui a crescere: i magazzini e le camerate della caserma, disseminati senza cura nel paesaggio, sono diventati una specie di Stonehenge. Un luogo di pellegrinaggio dove si assiste allo spettacolo davvero surreale delle guardie di frontiera cariche di pistole, giubbotti antiproiettile e gracchianti radio portatili, sedute da Carmen’s a mangiare burritos, fianco a fianco alla figura tipicamente metropolitana del direttore dello Stedelijk Museum di Amsterdam. Non è Aspen, città fantasma che è divenuta un rifugio della cultura alternativa, trasformandosi in una riserva per i miliardari delle imprese telematiche e per Rupert Murdoch, anche se all’inizio degli anni Cinquanta Aspen poteva sembrare altrettanto sperduta.
Judd ha portato a termine gran parte del lavoro che si era proposto in vita. Nella boscaglia fuori della base, dove corrono le antilopi, ha sistemato una fila lunga un chilometro di fabbricati di cemento, contenitori allineati secondo permutazioni di tre: ha trasformato i due capannoni più grandi abbattendo le pareti laterali e sostituendole con vetrate, e dotandoli di nuove volte a botte di alluminio. Dentro, un paesaggio di contenitori di alluminio fresato, risposta eterea ai contenitori che si vedono di fuori: qui è centrale la risposta alla luce e al paesaggio. In certe ore della giornata questi sembrano quasi sparire, in altre si incendiano di arancione in tramonti di fiamma. E alla luce della luna brillano tenui. Judd è morto nel 1994, quando il progetto non era ancora compiuto. Aveva coinvolto fin dall’inizio altri artisti perché realizzassero qui le loro creazioni. Claes Oldenburg ha eretto un gigantesco ferro di cavallo totemico, Richard Long ha composto un grande cerchio di pietre. Il russo Ilya Kabakov trasformò una delle baracche militari in una stregata ricostruzione di una vecchia scuola sovietica, con tanto di banchi e di libri abbandonati a degradarsi sotto l’azione degli elementi: ma il progetto di gran lunga più ambizioso è l’opera che Judd convinse il suo amico Dan Flavin a intraprendere, nella fila di edifici a U che si affacciano sulle due grandi opere di Judd.
Flavin era molto amico di Judd, tanto che questi diede a suo figlio il nome di Flavin, ma dopo un litigio, per gli ultimi quattro anni di vita di Judd, non si scambiarono più una parola. Marianne Stockebrand, direttrice della Chinati Foundation, ricorda che “nel 1979 era chiaro come il sole che la questione era tra John Chamberlain, Judd e Flavin: c’erano dei modelli per Flavin, sempre sei edifici, la costruzione iniziò nel 1983, ma si fermò un’altra volta dopo i disaccordi tra Judd e la Dia Foundation”. I disaccordi trovarono infine composizione in tribunale, e la Dia fornì finanziamenti sufficienti a dare inizio al progetto. “Quando conobbi Judd nel 1989”, dice Marianne Stockebrand, “ci furono un paio di incontri con Flavin per definire le sue idee sul lavoro. Ci vollero parecchie visite e mesi d’attesa. Un pomeriggio, a casa sua a Long Island, Flavin finalmente cominciò a parlare, prima della posizione degli apparecchi, poi dei colori, e infine tirò fuori uno dei suoi certificati, con cui attestava l’autenticità del progetto”. Poco dopo averlo firmato, Flavin morì, lasciando Marianne Stockebrand a raccogliere i fondi (quasi due milioni di dollari) e a lavorare con gli assistenti di Judd per completare il progetto. Finalmente presentata in ottobre, questa è un’opera di straordinaria potenza, un’ipnotica serie di installazioni che pare far eco alle esplorazioni di solidità e di vuoto di Judd. Sono le installazioni più profondamente architettoniche mai concepite da Flavin. Le sue direttive includevano la creazione di speciali pareti inclinate, che schermassero la luce fluorescente e al tempo stesso le offrissero una superficie che le rivelasse. È un’opera di scala impensabile in un normale museo: un capannone dopo l’altro, lo schema è lo stesso, ci si cammina dentro, ci si trova alla fine di un tubo bianco, sopraffatti dall’intensità e dalla bellezza della luce, ci si ritrae ritornando nel paesaggio e si prosegue verso l’elemento successivo. Non esiste nulla di simile e il ricordo resta vivo durante tutto il viaggio di ritorno da Marfa, proprio come voleva Judd.