Decorare un’auto: Pistoletto, Portoghesi, Ferrè, Dorfles e gli altri

Dall’archivio Domus, un saggio del grande critico triestino e uno di Germano Celant, in un progetto collettivo di designer, artisti e intellettuali per la Renault Supercinque di Marcello Gandini.

Ferrè, Mendini, Merz, Nespolo, Pistoletto, Portoghesi, Sottsass, Franco Maria Ricci; un’auto ciascuno, disegnata da Marcello Gandini – la matita della Miura e della Countach – e in questo caso un’auto per la quotidianità, una Renault 5; vernici alla nitro e carta bianca per intervenire sulla carrozzeria; Gillo Dorfles e Germano Celant che da tutto questo distillano due acuminate riflessioni sul rapporto tra la decorazione, l’immagine e la tecnica in tempo ormai di postmodernità.  Potrebbe sembrare un prompt per uno scenario di fantascienza da far generare ad una intelligenza artificiale: è invece quello che Domus pubblica nell’aprile del 1985, sul numero 660.  Tesa tra una funzionalità sempre più mimetizzata ed un edonismo d’immagine che, come dice Celant, dopo la guerra ne trasforma sempre di più l’habitat, l’automobile diventa, in rapporto alla decorazione, un tema di arte vs. tecnica – pensiamo alle Art Car di BMW o alle decorazioni del Movimento Arte Concreta evocate nel saggio – ma anche di massa vs. individuo, dove la personalizzazione del pezzo unico rende irripetibile il quotidiano. Qualcosa che va oltre il semplice labeling di auto da parte di firme della moda (come succedeva all'epoca con le Cadillac in serie limitata Gucci).

Domus 660, aprile 1985

Decorauto

Sia ben chiaro: qui si tratta di otto vere e proprie decorazioni “pittoriche” applicate a carrozzerie di automobili (e precisamente alla nuova Renault Supercinque). Qualche cosa di molto diverso dall'uso del colore quale elemento costitutivo del design automobilistico. Che l’impiego di carrozzerie colorate risponda a esigenze non solo estetiche ma psicologiche e funzionali: visibilità, connotazione di rapidità, di eleganza, di sportività, a seconda dei diversi colori usati, è un dato di fatto scontato. Sul quale non è il caso di ritornare. Ma negli esempi che vengono qui proposti il discorso è un altro: alcuni pittori (Nespolo, Pistoletto, Merz), architetti (Mendini, Sottsass, Portoghesi), stilisti (Ferré), editori grafici (Ricci), hanno “istoriato” con le loro decorazioni i cofani e altre parti della carrozzeria, con l’evidente intenzione di dimostrare che questi additivi ornamentali sono un elemento di piacevolezza (o di originalità o di prestigio) aggiunto alle altre caratteristiche della propria vettura. L’idea è tutt’altro che inedita. Già nell’ormai remoto 1952 il MAC (movimento per l’arte concreta) di Milano aveva avuto una intenzione analoga, e aveva esposto un gruppo di maquettes di motocicli e motoscooters dipinti da artisti e designers come Iliprandi, Asti, Regina, Di Salvatore, Munari, Viganò ecc. La cosa era abbastanza ardita, proprio in un periodo di razionalismo trionfante e di anti-decorativismo, ma stava a provare come alcuni dei principi teorici sollevati dal MAC non fossero privi di possibilità evolutive.

Domus 660, aprile 1985

Questo, d’altronde, non è il solo episodio precorritore dell’attuale iniziativa. Chi si sia recato in alcuni paesi del Nord e soprattutto del Sud America – ad esempio la Colombia – sarà rimasto sconcertato, e anche divertito, osservando le incredibili decorazioni multicolori che rivestono buona parte degli autobus locali, soprattutto di quelle linee private che fanno la spola con i quartieri periferici dei tugurios e delle bariadas. Anche molte delle macchine private più “popolari” appaiono spesso vivacemente istoriate. Come dobbiamo allora considerare l’attuale esempio di carrozzerie con “decorazioni d'autore”? Non certo come esempi da proporre per una produzione di grande serie; ma come la possibilità, non da bandire ma da giudicare volta per volta – di creare un certo numero di automobili che possano costituire una “serie differenziata”, altamente personalizzata, che chiunque – artista o meno – ha il diritto di concedersi; a suo rischio e pericolo: pericolo di veder aggiunte nottetempo altre decorazioni – queste non d’autore – da parte di qualche passante malintenzionato.

Gillo Dorfles

Domus 660, aprile 1985

Nel mondo occidentale il corpo dell’automobile quale luogo di simbiosi narcisistica e apparato di seduzione attraverso le forme ed i colori è venuto alla luce solo recentemente ed in parte. La sua scoperta a partire dagli anni Cinquanta ha colto di sorpresa, perché lo si è sempre ritenuto un corpo rigido e meccanico, le cui caratteristiche di vestibilità e di camuffamento erano quasi nulle. Con il passare dei decenni il suo abito o habitat è invece fiorito. Si è arricchito di maschere e di veli, di gioielli e di ninnoli, a seconda del riferimento al suo indossatore-conduttore. Gradatamente ha assunto immagini del tipo di attività condotta, sociale o individuale, delinquenziale o industriale. Attraverso la dinamica del suo corpo, l’automobile è arrivata a definire le ideologie e gli ambiti culturali, tanto che le analogie sono arrivate a comprendere il diverso quanto il militare, il contestatore quanto il poliziotto, il voyeur quanto il pudico, l’hippie quanto l’impiegato. Per l’Europa si potrebbe parlare di una tradizione della macchina come abito che parte dalla tradizione futurista del panciotto decorato di Depero e Marinetti e si declina con Delaunay attraverso gli anni Trenta sui mobili quanto sulle automobili mentre per l’America si deve indicare un culto per il tatuaggio e il body building che tendono a plasmare ed alterare non solo la superficie cutanea, ma gli arti ed i muscoli. Si capiscono così le differenze tra le esperienze scultoree tentate oltreoceano e quelle pittoriche praticate sul nostro continente di cui il progetto Renault partecipa. Rimane però da sottolineare che, se nell'arco del tempo l'automobile si è trasformata da feticcio in bambola, da mezzo di locomozione in rituale del muoversi esistenziale, i più arditi interventi di giocosa manipolazione epidermica o muscolare non sono ancora riusciti a far arrossire un’automobile o a renderla camaleontica. Il grado di sensibilità dei suoi pigmenti, ai fattori e alle influenze esterni è basso.

Si possono usare i battiti di ciglia luminose dei fari o gli scodinzolamenti degli indicatori di posizione, ma rimane ancora impossibile segnalare le mutazioni psichiche del conduttore: diventare rossi di vergogna o verdi di rabbia. La ricerca di mutevolezza ai contesti è quindi ridotta, quasi il dispiegamento dell’io automobilistico fosse represso o negato. L’essenza narcisistica che si può estrinsecare nel tracciato cutaneo è definita infatti una volta per tutte al momento dell’acquisto. È quasi un arto meccanico o un occhio di vetro, sarebbe interessante pensarla invece come una papilla sensibile alla luce, ai gusti, ai venti, alle piogge, ai movimenti e agli sguardi altrui.

Germano Celant