“Un etereo avamposto ultraterreno, profondamente immerso nella lingua diafana di Sanaa”: le parole con cui Sam Jacob introduce il progetto per la sede distaccata del massimo museo francese sono sufficienti a tracciare in una riga il ritratto completo di un’architettura tanto potente quanto semplice e rarefatta. Sono ormai passati più di 10 anni da quando il Louvre-Lens ha cominciato ad accogliere visitatori, inserendosi in un fenomeno storico globale, quello dell’arrivo di satelliti-landmark museali in territori postindustriali, che si è espresso in opere come il Guggenheim a Bilbao di Gehry, o il Centre Pompidou a Metz di Shigeru Ban. Il lavoro condotto dallo studio di Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa – vincitori del Pritzker nel 2010 – per il Louvre si distingue però dal valore iconico immediato dei suoi consimili, e intavola un dialogo con la memoria produttiva del luogo, assumendone i materiali e trasfigurandoli in uno spazio puramente concettuale che però riesce a farsi esperienziale, immergendo i visitatori nella sua Galerie du Temps in un modo quasi totalizzante. Domus presentava il progetto nel gennaio del 2013, sul numero 965.
Il museo del tempo
È una di quella mattine così umide e grigie da far pensare che non verrà mai giorno. Qui il paesaggio è vasto, pianeggiante e privo di orizzonte, perché la nebbia sfuma e cielo e terra. Il suolo è graffiato da profondi solchi marrone, su cui aleggia il verde pointilliste dei raccolti invernali. Sconfinati piani grigioverde, macchiettati di gabbiani: uno spartito su cui sono tracciate le linee decise dei tralicci e i profili scheletrici degli alberi. Distese prive di qualsiasi interruzione naturale, come se fossero state lavorate e rilavorate da agricoltura e industria, rese superficie totalmente astratta a suon di quei pugni che la storia ha assestato alla Francia del Nord. Paesaggio suddiviso dalle geometrie bidimensionali di autostrade, logistica, proprietà; inscritto dal raggio dell’autonomia delle macchine.
Da questa brumosa monotonia s’innalzano due giganteschi coni neri. Si tratta dei due cumuli di scorie più alti d’Europa, residui dell’industria mineraria che, un tempo, caratterizzava la regione. La loro scala e la loro forma, profondamente astratta, appartengono al genere che solo l’industria sa produrre. Le strane geometrie angolari dell’epoca postindustriale ospitano oggi il Louvre-Lens.
I suoi riflessi sono così astratti che le pareti appaiono spesso spettrali, tanto da farci credere di poterle trapassare con lo sguardo.
Costruito sui terreni un tempo occupati da una miniera dismessa negli anni Ottanta, il nuovo museo è un avamposto regionale del grandioso Louvre parigino, e rappresenta forse l’ultimo della serie di progetti culturali europei su scala postindustriale costruiti in posizione decentrata – sequenza aperta a suo tempo dal Guggenheim di Bilbao. Qui, all’estremità opposta di questo percorso ventennale, il Louvre macina velocemente tutti gli argomenti ormai familiari: turismo, cultura come lenitivo postindustriale, rigenerazione e regionalismo. Qui, però, c’è in ballo anche qualcos’altro: si reinventa un’iterazione dello stesso Louvre.
L’edificio condivide la volumetria bassa e regolare e lo stesso rivestimento in vetro e metallo del vernacolare agro/industriale che lo circonda. L’estrema precisione dei progettisti, comunque, rimodella questa sostanza prosaica in una struttura ultraterrena, come se la piattezza geometrica del paesaggio fosse assurta a forma corporea. Dal perimetro del sito, il rivestimento in alluminio spazzolato della costruzione si presenta simile a dei lunghi, bassi rettangoli di un nebuloso Gerhard Richter.
L’effetto superficiale dei pannelli risucchia tutta la gravità della loro sostanza, facendone evaporare la massa: è un edificio che pare formato organizzando le nebbie del Pas-de-Calais. I suoi riflessi sono così astratti che le pareti appaiono spesso spettrali, tanto da farci credere di poterle trapassare con lo sguardo. Svoltato l’angolo, i suoi corpi si riflettono l’un l’altro, così che altri volumi fantasma baluginano sulla sua superficie. Il museo scompare dentro a se stesso, come catturato nell’atto di svanire in uno stato in cui forma e sostanza sono semi-atomizzate.
Questa inversione offre un indizio che aiuta a capirne il carattere. Il Louvre-Lens non può essere letto senza riferimenti al gigantismo del suo genitore, il Palais du Louvre di Parigi. Il Louvre è un’entità, un edificio e un’istituzione di enorme importanza culturale, strettamente associati alla costruzione di un’identità nazionale e alle macchinazioni imperialistiche e coloniali.
C’è qualcosa d’insolito nell’effetto che l’ambiente produce, come se la sua atmosfera avesse qualcosa della nebbia che lo circonda all’esterno.
Per programma e simbolismo, il Louvre-Lens tenta di reimmaginare il Louvre, di creare un nuovo ordine di musei, un ordine che inverta le caratteristiche del palazzo storico come casa della cultura. Nella sua leggerezza, per esempio, possiamo leggere una rivolta contro l’evidente gravità della pietra. La sua neutralità contrasta con le superfici cariche di storia del Louvre, dense di codici decorativi e figurazione narrativa. Lo si legge anche in pianta, dove le due ali accostate asimmetricamente a un padiglione centrale rappresentano una ricollocazione invertita della iper-simmetria del vecchio Palace du Louvre. Come il figlio di un genitore famoso, sembra sentire una spinta a opporsi a quelle stesse forze che lo hanno generato.
La Galerie du Temps è la più chiara inversione curatoriale prodotta dal Louvre-Lens. È il cuore del progetto, il centro della sua ambizione curatoriale. Il suo enorme spazio aperto si spalanca dinanzi a noi. Le sottili travi bianche a T dell’atrio temperano la luce che filtra dall’alto. Le pareti della galleria hanno il medesimo luccichio riflettente dell’esterno, mentre in pianta presentano una strana, quasi impercettibile deformazione.
C’è qualcosa d’insolito nell’effetto che l’ambiente produce, come se la sua atmosfera avesse qualcosa della nebbia che lo circonda all’esterno. Spazio e luce sembrano farsi più fisici, come fossero tramutati alchemicamente in una sostanza opalescente. Il pavimento, algida superficie di cemento, si stende dinanzi a noi come un paesaggio. Si tratta, comunque, di un paesaggio concepito come tempo, piuttosto che come spazio. Perché, mentre la stanza si dipana davanti a noi, lo stesso accade al tempo, che inizia nel 3500 a.C. e continua fino a metà Ottocento, il punto in cui le collezioni del Louvre hanno fine. Come in un regolo, gli indici temporali sono incisi sulle pareti dello spazio espositivo.
Gli oggetti sono disposti in arcipelaghi, installati in direzione opposta rispetto alla progressione cronologica: ecco allora che, come entriamo, nella stanza il tempo si erge dinanzi a noi, e tutte le statue ci guardano, stupite quanto gli avventori abituali di un locale. Ogni nostro passo è un salto di cent’anni. Questa decisione curatoriale intende affermare che tutto questo si pone in diretta opposizione all’organizzazione del Louvre di Parigi, dove gli oggetti sono raggruppati per comparti. Qui, l’intenzione è quella di mostrare l’intera cultura umana come un continuum, di far sì che vengano forgiate relazioni inattese, al di là dei limiti del tempo e dello spazio museale.
L’ambizione della Galerie du Temps è enorme: un unico spazio che contiene tutta la cultura umana. C’è qualcosa di definitivo in tutto questo, come la scena conclusiva di 2001: Odissea nello spazio di Kubrick, in cui dei mobili in stile Luigi XIV sono immersi in un candido alone spazio-temporale. Tuttavia, c’è qualcosa di strano al cuore di questo programma. Eliminando categorie di tecnica, geografia e cultura, e dando la priorità a una cronologia lineare, sul piano architettonico e concettuale esso ci lascia con uno schema curatoriale tanto rigido quanto quello di qualsiasi museo ottocentesco. Se l’obiettivo è un rapporto soggettivo e imprevedibile, ci troviamo invece incapaci di sfuggire l’idea stessa di tempo lineare. Viene da pensare a esempi alternativi, come la Sainsbury Wing della National Gallery di Londra, in cui coesistono storia dell’arte e referenze trasversali.
Il Louvre-Lens ci offre un’unica prospettiva storica e, in tal senso, sembra interamente cartesiano, uno spazio che affonda le proprie radici nell’illuminismo francese. Questo spazio pare inoltre mettere a nudo una certa debolezza degli architetti: se il contributo di SANAA può essere caratterizzato da qualcosa, è certo la sua abilità a produrre piante-matrici di un’astrattezza estrema, una sorta di campo iper-relazionale. Eppure, qui, questi gesti sono tralasciati in altre parti del museo, per esempio nei diagrammi a bolle dei padiglioni che ospitano librerie, caffè e ristoranti. In questa grande sala, ci sembra ironicamente di far ritorno a un’iperformalità, uno spazio denso di senso piuttosto che di ambiguità (dove persino ogni passo sembra voler indicare un movimento in avanti o indietro nel tempo).
La Galerie du Temps è uno spazio espositivo che fa sensazione, e l’idea di uno spazio misurato come il ticchettio di un orologio, ancorché incongrua, è comunque un concetto ammirevole ed elevato. Ci ricorda, inoltre, che l’architettura non è legata solo formalmente alle costruzioni rurali e industriali della zona, ambienti in forma di edificio in cui temperatura e luce sono manipolate per produrre climi artificiali, fuori dal tempo e dallo spazio, per produrre raccolti fuori stagione e una crescita naturale accelerata sinteticamente.
Potremmo immaginare la Galerie du Temps come una specie di spazio in cui produrre un’accelerazione culturale, un ambiente altamente raffinato che produce e sostiene storia e cultura piuttosto che orticoltura. Il suo contenuto è un superbo pacchetto di greatest hits: un’esperienza concentrata di oggetti culturali di rango. Sculture e dipinti etruschi, greci, romani, islamici, rinascimentali sembrano sospesi nell’atmosfera della Galerie.
Questi indici del livello delle acque della cultura umana paiono perdere il loro radicamento a terra e fluttuare come frammenti dell’orbita di un asteroide in un sublime apparato architettonico in stile Walmart. Il Louvre-Lens è in realtà il museo di un museo, un museo del Louvre stesso. Possiamo rendercene conto guardando alla sua visione post-curatoriale della storia dell’arte e alla trasparenza dell’edificio, che sembra permetterci di vedere la struttura stessa del museo. È presente anche nel piano interrato, dove gli archivi e i depositi delle opere sono aperti al pubblico, dove busti e tele sono collocati su scaffalature industriali.
Presentando oggetti della collezione del Louvre, il museo espone anche le meccaniche stesse del grande museo francese. La storia del museo diventa un’archeologia a sé stante, un’archeologia che ci permette di scorgerne il ruolo quale produttore di narrative storiche. A essere esposte sono allora anche le tracce del potere, imperialista e colonialista, col quale è stato forgiato. E ciò rende chiaramente visibile la funzione fondamentale del museo nella costruzione di un’identità nazionale e della cultura occidentale.