Casa Miller

Un progetto d'interni di Mollino definito allora, nel 1938, sostanzialmente decorativo e autocelebrativo anche se di grande eleganza.

Pubblicato in origine su Domus 129/settembre 1938

Una conchiglia si forma poco a poco, per infinite stratificazioni che sono un'immagine negativa e pietrificata della bestia che dentro vive: è l'espressione pratica di un sentimento. Così i nostri visi e le nostre case. Esse ci crescono attorno, e fissano, nelle tende fiammanti o scolorite e nei muri impeccabili o scrostati, vicende paterne e infantili, abitudini, passioni e noia. Leggiamo come fotografie gli interni spaccati dalle demolizioni, e le loro carte fiorate, che raccontano i bisogni monotoni degli uomini, come abiti appena smessi che serbano il calore del corpo. Dentro queste sentimentali conchiglie viviamo, ma, per quanto esse, come la veste da camera di Diderot, abbiano la nostra forma, e parlino, possono essere oggetto dell'arte, non arte. E meno ancora hanno a che fare con l'arte quelle altre case, tutte nuove, di cui sono piene le riviste, nelle quali si nsolvono problemi di "gusto moderno" inseguendo i bisogni di un ipotetico uomo 'funzionale', o l'idea di una Bellezza astratta, insita, per misteriose ragioni, in certi rapporti, in certi moduli e mode (l'idea, per così dire, di una suppellettile ideale eterna): L'ostrica ha fatto il guscio, in ogni parte, in quarto bono, coi dovuti affreschi Matissiano-ortodosso-masacceschi ed un torrione basso nel gusto di Picasso (ma un poco più neoclassico). Po', beata, si è assunta al ciel dell'arte.

Tavolo con piani in cristallo securit

E spesso non hanno a che fare con l'arte quelle altre case e chiese e reggie e edifici fastosi che in tanto numero e ricchi e splendidi ci hanno lasciato i tempi passati e vanno edificando e arredando i moderni; nei quali l'artefice mostra la sua abilità e il committente la potenza e ricchezza, in opere il cui scopo è la celebrazione, l'ornamento, la rettorica: espressioni tutte oratorie, che hanno assai più relazione con l'arte di governo, e con la soddisfazione di sè, che non con la poesia. Ma esistono, e numerosissimi, degli interni di case antiche e moderne che sono, almeno nelle intenzioni o parzialmente, opera d'arte, libera espressione del mondo poetico dell'autore, o che il bisogno espressivo si faccia strada, quasi per una involontaria ma prepotente necessità sugli altri motivi da cui l'opera nasce, o che esso sia, sin da principio, consapevole e unico. Vengono alla mente mille case e palazzi che hanno consentito e consentono perfettamente a generazioni di nascere, vivere e morire nei loro interni, che sono stati per secoli ottime "machines à habiter", senza perdere mai la loro prima e sola funzione di un mondo poetico originale. L'Italia ne è piena: se, per citare un'opera del passato che tutti conoscono, prendiamo ad esempio la Palazzina di Stupinigi, vi ritroviamo tutta espressa la sensuale armonia juvariana, che del gusto del suo tempo e della ricchezza fa docili strumenti, non fine, ed è perciò, vera architettura. Muri, spazi, mobili, pitture parlano sì nel linguaggio del loro tempo, sono opera di gusto: ma il gusto è tutto risolto nell'espressione, e perciò l'opera resta, senza diminuzione, finito da gran tempo il barocco, le sue maniere e le caccie della Corte reale. Fu tuttavia sempre difficile, anche in tempi gloriosi e fiorenti di arte, per l'architetto essere totalmente libero, in opere di questa natura, dalle esigenze pratiche del sentimento, del gusto, e dell'oratoria. A giudicare dai risultati, si direbbe che oggi questa difficoltà sia assai di rado superata completamente anche dai buoni e dai migliori. E non si tratta soltanto di difficoltà d'ordine materiale, o dall'imperioso obbligo di soddisfare certi bisogni, che devono essere soddisfatti. La difficoltà essenziale viene di dentro, ed è quella di superare il momento della pura cultura, della "tecnica", e del compiacimento per la tecnica astrattamente considerata come fine dell'opera (e perciò inesistente o mal dominata anche come tecnica), il momento dello standard e della imitazione classicistica, e in genere di evitare lo scambio tra espressioni pratiche e poetiche, in opere che, per gli scopi pratici che sono ad esse indissolubilmente congiunti, inducono facilmente in questo errore. Potremmo, credo, contare sulle dita gli interni contemporanei da noi conosciuti, nei quali ci troviamo di fronte a opere puramente espressive, senza contaminazioni (Mies van der Rohe, Le Corbusier). Ma non sono frequenti neppure quelli dove l'espressione di un mondo poetico è solo parzialmente raggiunta, o almeno tentata. E in essi conviene rigorosamente distinguere, e scegliere l'originale dal generico, lo stile dalla moda.

Piano del tavolo

Esaminiamo insieme questa Casa Miller, dell'architetto Carlo Mollino. È inutile che io mi attardi a descriverla: le fotografie sono ben chiare, con quel tanto di documentaria falsificazione a cui il lettore è così avvezzo, che non potrebbe farne senza. Ma non sarebbe facile, da queste sole illustrazioni, rendersi conto del senso che deve legare questo complesso di oggetti, di pareti, di specchi, di colori, di spazi, e distinguere quello che in essi è soluzione pratica di problema pratico, quello che è opera di puro gusto, e quello che essi vogliono esprimere. E poichè ci interessa ricercare quali ne siano i valori espressivi, dovremo cercare di distinguerli dagli altri che, anche se non sono non-valori, tuttavia non ci interessano in questa sede. Non voglio qui soffermarmi su quelle che sono pure limitazioni materiali: la forma della casa, preesistente e difficile a essere del tutto dimenticata, i limiti di spesa per cui, ad esempio, questi tendaggi sono piani, che avrebbero dovuto esser curvi e sporgenti, o quello specchio è rotondo che avrebbe dovuto, in tutt'altra forma, meglio associarsi al senso degli oggetti circostanti.

Chi, guardando queste fotografie o visitando direttamente la Casa Miller, vi cerchi soluzioni nuove a problemi di costruzione di mobili d'uso, di collocazione di oggetti in un ambiente da abitarsi, di particolari decorativi troverà di certo risposte brillanti e utili
Lo specchio 'Venere', la poltrona e la vetrina

Sono, queste, mende particolari, che l'autore stesso mi indica, e che, per la loro correggibile evidenza, non toccano il modo di essere dell'opera. Quelli a cui debbo qui invece accennare come a elementi discordi e quindi dannosi, sono proprio quelli che chi osservi questa casa dal punto di vista della ambientazione pratica e della decorazione considererà come pregi (e lo sono, ma in quel campo): il " buon gusto" e l'ingegnosità.

...come incorniciare una stampa giapponese...

Chi, guardando queste fotografie o visitando direttamente la Casa Miller, vi cerchi soluzioni nuove a problemi di costruzione di mobili d'uso, di collocazione di oggetti in un ambiente da abitarsi, di particolari decorativi (come incorniciare una stampa giapponese, o come nascondere dei brutti radiatori di termosifone, o un apparecchio radio del commercio, ecc., ecc.), troverà di certo risposte brillanti e utili, come solo i pochi migliori arredatori italiani saprebbero dare. E io non intendo affatto negare l'interesse e il valore di queste ricerche. La forma di questi tavoli, di queste mensole è estremamente elegante, anche considerata fuori del complesso, e questi mobili potrebbero utilmente rifarsi e adattarsi a mille altre case. Ma lo scopo di Mollino (e la ragione per cui parliamo qui della Casa Miller) è un altro: quello di esprimere sè stesso, con questi mezzi: non quello di creare oggetti industriali, siano pure elegantissimi. Ed allora dobbiamo riconoscere che, al lume di questa ambizione così necessaria, il buon gusto, l'abilità decorativa considerata scopo a se stessa, è piuttosto una limitazione. I colori di quelle tende, di quel tappeto, di quelle poltrone sono squisiti: non si potrebbe, decorativamente, trovare un rapporto più giusto ed edonisticamente godibile. Ma, nei riguardi della personalità artistica di Mollino, che cercheremo più avanti di definire, questo edonismo rappresenta un momento estraneo.

...come coprire un brutto calorifero...

La forma curva di quel letto trapuntato sollevato, è invogliante e preziosa: ma la preziosità amata per sè stessa nasconde, più che rivelarlo, e in un certo senso tradisce, il senso della casa. Il parlare corretto e elegante, le locuzioni forbite, il toscaneggiare (cose tutte pregevoli in sè) non solo non bastano a fare il buon scrittore, ma possono contrariare, come un vizio, la sua espressione. Anche questa Casa Miller non è dunque ancora del tutto libera dal difetto corrente della nostra architettura, che scambia così volentieri il vocabolario con un libro di poesia e che ne fa il suo maggior vanto. Un'altra limitazione alla libertà espressiva, è da riscontrarsi nel compiacimento per la difficoltà superata: anche questo è uno scopo pratico di autocelebrazione, di oratoria rivolta a sè stesso, che, introducendosi nell'espressione, può indurre in errori; come l'insistenza su immagini riuscite, o la loro ripetizione. Ma questo difetto già complemento di corrispondenti virtù, difficile a scindersi da quelle, che cercheremo ora di analizzare.

Che cosa dice dunque, o che cosa accenna a dire questa Casa Miller? Che cosa è quel suo mondo, per il quale siamo indotti a considerare come errori i pregi del gusto e della abilità? L'architettura di Mollino (e il discorso vorrebbe, d'ora innanzi, documenti più abbondanti che questi presenti, poichè si riferisce non solo alla Casa Miller, ma, attraverso di essa, presa come primo abbozzo e tentativo, a quelle altre opere più importanti e realizzate ch egli ha costruito o ha in corso), l'architettura di Mollino, se mi si consentano queste distinzioni, tende, piuttosto che alla effusione lirica, al romanzo, alla creazione cioè e alla descrizione di personaggi. Rivolta all'uomo, non si appaga in generale di svelare l'umano in forme assolute bastevoli a se stesse, formalmente determinate (per quanto, anche nell'opera di cui ci occupiamo esistano oggetti realizzati senza necessità di rapporti: come, ad esempio, le curve rincorrentisi del piccolo tavolino di vetro, amate come un teorema risolto). Il suo interesse è invece per un uomo individualmente determinato nella coesistenza di tutti i suoi tempi e di tutti i suoi spazi e perfino, se si potesse ottenerlo, di tutte le sue possibilità. Questa aspirazione a una singola totalità anzichè implicita e nascosta, diventa esplicita e oggettiva: si riferisce cioè a un "personaggio" che Mollino descrive con i mezzi dell'architettura e della scenografia. Architettura nasce qui da autobiografia, ed è lo sforzo di liberarsene oggéttivamente come racconto: da questo sforzo nasce il personaggio. È un ambiguo personaggio, insieme in prima e in terza persona, un Ulysses mistificatore alla ricerca degli spazi perduti. La Casa Miller vuol essere piuttosto che la casa di questo personaggio inventato, il personaggio stesso (o un suo primo tentativo di esistenza), nel cui ventre, come in quello della balena, vivranno gli abitatori reali. La caratteristica principale del nostro personaggio è che egli tende a bastare totalmente a sè stesso, a trasformare tutto in coscienza, a razionalizzare tutti gli impulsi e tutti i sentimenti, e a dominare. Se dunque è un personaggio libero, lo è come un tiranno alfieriano. Egli vuol essere tutto: ne viene come prima conseguenza che, nella sua rappresentazione, lo spazio (poichè questa, spaziale, è la sua natura) dev'essere finto. Questo è un mondo chiuso: siamo sul palcoscenico o nell'interno di un capitolo. L'uscio è serrato: quello che è fuori è totalmente arbitrario. Ma, dentro, tutti gli spazi possibili debbono coesistere: quelli dell'infanzia e quelli della vecchiaia, e l'attualità e il ricordo, e l'evidenza e il pudore.

Particolare con specchio e conchiglia

Perciò non è possibile esprimersi con l'ordine gerarchico della prospettiva, perchè tutte le cose sono ugualmente vicine, e ognuna ne implica infinite altre, e tutte fanno ressa e non vogliono essere dimenticate. Per rompere la gerarchia della prospettiva formale e di quella sentimentale tutti i mezzi sono buoni, dagli specchi, con le loro illusioni, alle alterazioni di grandezza di oggetti comuni, allo spezzarsi improvviso di una linea ovvia: tutte le astuzie legittime di una scenografia scaltrita. Talvolta il gusto dell'inganno prende il sopravvento sulla sua funzione antiprospettica: è il compiacimento dell'ingenua magia che solleva una casetta girante di vetro su esili tiranti: il semplice piacere di potenza della difficoltà superata. È questo, con l'aridezza e l'ironia, il limite negativo, la pena del nostro personaggio, che vuol essere, senza passione, completo, e crearsi da solo, pezzo per pezzo, come un'opera d'arte. Nella chiarissima oggettività di questo mondo, le questioni di 'gusto' non possono, come abbiamo visto, aver senso: di fronte alle persistenze del 'gusto' gli oggetti di cattivo gusto hanno la loro funzione liberatrice, quella stessa degli inganni prospettici; e riescono quasi sempre a farsi esenti dal facile e timido peso dell'ironia. Svincolata l'architettura dalle ricevute gerarchie, compiuto lo sforzo di liberazione e di autocostruzione, il nostro personaggio può lasciarsi andare, e cercare la sua forma in quella mutevole e piena di continue diramazioni del pensiero. Gli oggetti, le masse, gli spazi da piani diversissimi si giustappongono legati soltanto da una continua, moralistica volontà di consapevolezza che vuol veder chiaro nelle evocazioni, renderle tangibili e spiegate, fare immagini plastiche perfino dei semplici rapporti verbali e dei voli oscuri della fantasticheria, cercando insieme di non cadere nel simbolismo letterario o in un facile surrealismo. Donna e conchiglia stanno di fronte su due pareti, e si raggiungono in una sola forma in uno specchio. Uno specchio evoca Venere, ha la forma di Venere: gli oggetti specchiati diventano misteriosi membri del corpo della dea giovinetta. "La giovinetta dà una spinta leggera ad un'ala delle aquile di bronzo recanti in volo il lampadario e, seguendo la celeste navicella che oscilla e ruota pigra, pensa senza sorpresa che quelle aquile impero conoscono il cielo e che forse un tempo volavano per davvero: ma l 'immagine inquietante delle aquile di bronzo vive e intente al trasporto in un cielo vero ha brusca fine". Il lampadario che una mano può portare, corre davvero sulla sua rotaia. verso un'aquila che un giorno ha davvero aperto gli occhi, e si ferma improvviso sul cielo bianco del muro. Se l'onnipotenza del nostro personaggio è quella del tiranno, se la sua libertà è quella del prigioniero (e sia pure volontario prigioniero), la sua aridezza è necessariamente mortale. Un tavolo diventa perciò, ai suoi occhi, una bara, una lastra, quella del sepolcro, e sotto la lastra è schiacciato il Prigione di Michelangelo. Così il personaggio della Casa Miller, insieme alle sue infinite coesistenti possibilità, conosce anche la sua morte - e, con la morte del protagonista, il romanzo è finito -. Ora possiamo sedere al suo tavolo, e scrivere.

Dettaglio di mobile

Se la Casa Miller non fosse che questo racconto, e lo fosse completamente; se il personaggio nascesse, vivesse e morisse intero nella architettura, ci troveremmo dinanzi a un'opera d'arte in tutto riuscita. Ma, come fin troppo a lungo abbiamo detto, questa casa è anche un'opera di 'gusto', elegante e utile come pochi altri architetti saprebbero fare. Le due cose non coincidono, o non coincidono del tutto: di qui il suo carattere di tentativo. Altri la loderà, e a ragione, come un esempio di pratica ambientazione; a me interessa invece per la sua tendenza ad una architettura poetica e disinteressata, che ci mostra la possibilità di un romanzo fatto di muri e di oggetti, di forme e di spazi. Il Lettore diffidente e fatto avvertito dalla citazione a questo punto dirà: "Questa che è qui analizzata e descritta è davvero soltanto la Casa Miller, con le sue sedie, i suoi divani, i suoi specchi, i suoi tappeti, i suoi attaccapanni e le sue suppellettili, o non piuttosto l'Amante del Duca, romanzo scritto debitamente in parole da Carlo Mollino, di cui abbiamo letto il principio parecchio tempo fa su una rivista, e di cui abbiamo poi sempre aspettato invano la fine? Volevamo critica d'arte, e temiamo ci abbiate dato critica letteraria o un saggio di psicologia". Ma l'interesse vero, rispondo, di questa Casa Miller, e la ragione sola che mi ha spinto a parlarne, è proprio lo sforzo dell'autore di esprimere se stesso, oltrepassando l'autobiografia, cercando di fissarsi oggettivamente in un personaggio che a sua volta implichi e caratterizzi tutti gli oggetti. Che egli stia facendo lo stesso sforzo (e con maggiore completezza) in un romanzo scritto con l'inchiostro non toglie, anzi aggiunge interesse a questo altro, tracciato qui in abbozzo, e più ampiamente descritto in altre opere, con i mezzi dell'architettura. E non è senza importanza che questa casa, a chi sappia dimenticarne i limiti pratici e leggerla in quanto ha di originale, possa apparire come una narrazione: sarebbe pure giusto e piacevole che si potesse parlare di una architettura come di un romanzo, e viceversa, senza metafora. Per gli altri, del resto, la Casa Miller offre fin troppe sedie per sedersi, e divani imbottiti per dormire. Carlo Levi

Veduta del soggiorno