Cosa possiamo aspettarci dall’arte in realtà virtuale?

L’artista olandese Celine Daemen, presidente della giuria di Venice Immersive, racconta a Domus qual è la direzione delle sperimentazioni artistiche in realtà virtuale, tra immersività e spazi liminali.

Perché scegliere la realtà virtuale come mezzo di espressione artistica? L’abbiamo chiesto a Celine Daemen, artista olandese di VR vincitrice della scorsa edizione del Venice Immersive, la sezione dedicata alla realtà virtuale dell’81esimo Festival Internazionale del Cinema di Venezia (e presidente della giuria di quest’anno). “Vengo da una formazione in ambito teatrale”, spiega Daemen. “Ho studiato teatro all’Accademia delle arti performative di Maastricht. Poi mi sono entusiasmata all’idea che il pubblico non fosse relegato in questo ruolo, quello di stare seduto su una sedia, guardando l’attore o lo spettacolo. C’è molta distanza nel rapporto tra il pubblico e lo spettatore. Quindi, coinvolgere ‘emotivamente’ il proprio corpo aggiunge davvero un nuovo livello all’esperienza artistica”.

Celine Daemen. Courtesy Studio Nergens

Ovviamente si possono avere forme di immersione anche con i media tradizionali (un libro ben scritto può effettivamente “trasportarti” in un’altra dimensione, e lo stesso vale per un film o una rappresentazione teatrale), ma la realtà virtuale sembra essere l’unico mezzo che può fare questo mettendo effettivamente lo spettatore al centro della rappresentazione, offrendogli un punto di vista in prima persona in un mondo virtuale che sfugge alle regole della fisica. Sei fisicamente presente, e questa esperienza corporea aumenta l’impatto emotivo del lavoro. “Il punto non è tanto vivere una storia, ma sperimentare gli spazi”, sottolinea Daemen. In questo senso, la realtà virtuale “può far emergere, per esempio, le proprie paure o i propri desideri. E questo è, penso, ciò che l’arte ha fatto nel corso dei secoli: farti vivere qualcosa di te stesso”. Questo è il potere dell’immersività: osservare l’ambiente virtuale che ci circonda e vedere noi stessi, senza alcuna intermediazione.
 


“Se hai appena perso la nonna e stai davvero passando un momento”, spiega l’artista, “e poi vedi un’opera d’arte o ascolti della musica, può capitare che improvvisamente pensi alla tua perdita, e in qualche modo ottieni una prospettiva diversa su un’esperienza molto personale. L’immersione ti colloca in una situazione o in uno spazio o in un momento o in un’immagine. E facendo questo, ti fa sperimentare le cose che stai attraversando e ti dà anche una nuova prospettiva su di esse”.  E in questo contesto, la costruzione dello spazio virtuale svolge un ruolo cruciale. 

È lì per rispecchiare qualcosa che è davvero umano, dandoci l’opportunità di imparare qualcosa su chi siamo in questo mondo, come i piccoli strani esseri umani che siamo. E per fare questo, dovrebbe rispecchiare un aspetto profondamente umano della realtà.

Celine Daemen

I pezzi di Daemen sono spesso ambientati in spazi liminali che si possono navigare liberamente, come labirinti verso l’ignoto (o nei luoghi più profondi della mente). “Cerco di creare spazi che siano in qualche modo specchio della realtà, perché penso che sia lì che risiede il potere dell’arte, anche aiutandoci a prendere le distanze dalla realtà. Le mie ultime due opere”, che sono Eurydice. A Descent Into Infinity (2022) e Songs for a Passerby (2023), entrambe presentate alle ultime due edizioni di Venice Immersive “si cammina su una superficie di 5-6 metri. Si procede in cerchio, e ogni volta che si gira l’angolo, all’interno di VR, si entra in un nuovo spazio. Se ti trovi fuori dalla VR, vedrai qualcuno che cammina in cerchio su una superficie piana. Ma per l’impressione di chi è all’interno è quella di camminare da spazio a spazio”.
 


Sembra che la realtà virtuale abbia a che fare con la ricreazione della realtà, ma in realtà non c’è uno scopo mimetico o narrativo. In realtà, è qualcosa di più simile a un sogno: “quando sogniamo, siamo completamente liberi da qualsiasi limite della realtà”, spiega l’artista. E come in un sogno, la VR (come ogni forma d’arte) “è lì per rispecchiare qualcosa che è davvero umano, dandoci l’opportunità di imparare qualcosa su chi siamo in questo mondo, come i piccoli strani esseri umani che siamo. E per fare questo, dovrebbe rispecchiare un aspetto profondamente umano della realtà”. 

E questo è, penso, ciò che l’arte ha fatto nel corso dei secoli: farti vivere qualcosa di te stesso.

Celine Daemen
 


Quindi, qual cosa c’è nel futuro della realtà virtuale? E quali sono i prossimi passi per la ricerca di Daemen? Innanzitutto, secondo l’artista, il campo artistico ha bisogno di ripensare i modelli della spectatorship: l’arte e i suoi spettatori sono davvero così distanti tra loro? E possono essere più vicini (non necessariamente in modo immersivo)? “Allo stesso tempo”, dice l’artista, “temo che ci siano altri sviluppi del mezzo che stanno andando in una direzione diversa. E questa è una parte della quale sono critica”.

Nei prossimi anni, Daemen svolgerà ricerche al Lincoln Center, dove lei e il suo team svilupperanno un’esperienza in VR multigiocatore utilizzando delle telecamere per la fotogrammetria in diretta. Parallelamente, stanno lavorando anche a un grande pezzo pensato per la struttura del dome, una proiezione con composizioni musicali interattive dal vivo che vedrà la luce nei prossimi quattro anni.

Immagine di apertura: De Opera van de Vallende Mens (L'opera della caduta). Courtesy Studio Nergens