La parabola di Michael Stipe, una rockstar diventata artista visivo

“Non lo prendo alla leggera”, spiega a Domus l’ex leader dei leggendari R.E.M, che ha dedicato gli ultimi anni a una carriera completamente nuova e ha appena inaugurato la sua prima mostra. Ma come ha fatto?

“Sono entusiasta di come le persone hanno accolto il lavoro e mi sento sollevato che sia finito”. E’ passato qualche giorno dall’inaugurazione della sua prima mostra personale alla Fondazione ICA di Milano e Michael Stipe ammette di sentirsi soddisfatto ma anche comprensibilmente sollevato.

Credo che se fossi stata una sua fan quando lui era il leader di una delle band più famose al mondo, farei fatica ad essere oggettiva sul suo operato come artista visivo. Chiamatelo pregiudizio, limite, o come volete voi, ma credo che continuerei a rimanere dentro alla sua musica che negli anni ’90, e oltre, era in heavy rotation sulle stazioni radio mentre le sue carismatiche sembianze e movenze erano altrettanto onnipresenti e inevitabili su MTV – e il suo luminoso talento evidente a tutti e indiscutibile. 

Fortunatamente il demone creativo di Stipe, frontman dei leggendari R.E.M. per 31 anni e 16 album, non si cura delle mie oziose speculazioni, e di eventuali nostalgie dei suoi fan, e corre ancora veloce e in altre direzioni, oltre l’alternative rock che ha contributo a definire. Dopo due libri fotografici, infatti, è appena uscito il terzo (sempre per Damiani) e, soprattutto, Stipe ha aperto la sua prima mostra istituzionale presso ICA Milano, spazio d’avanguardia artistica aperto nel 2019 da Alberto Salvadori che è il curatore dell’inedita mostra dal titolo che riepiloga un’esistenza e riecheggia una strofa: “I have lost and I have been lost but for now I’m flying high.”

Non la prendo alla leggera: sono troppo orgoglioso per pubblicare qualcosa che non reputo essere il miglior lavoro che potessi fare in quel momento... ma ovviamente sono anche il mio critico più severo.

L’ex spazio industriale, situato in una periferia milanese in via di rapidissima gentrificazione, fino al 16 marzo prossimo conterrà a stento lo straripante, insaziabile desiderio dell’ex rockstar di continuare a sperimentare con altri linguaggi e con la massima libertà espressiva. Questo è il punto. Non fermarsi, continuare ad esprimersi e auto-rappresentarsi, a raccontare e immaginare, mettere insieme i vivi e i morti, parole e immagini, persone e personaggi importanti per l’autore e per tanti altri essere umani; memorie private e immaginario collettivo, l’io e il noi sono intrecciati stretti nel percorso espositivo, a partire dalle installazioni d’apertura che omaggiano l’immenso Brancusi (1876-1957) e l’altrettanto grande, ma decisamente più sottovalutata, Marisa Merz (1926-2019) che Michael ammette di avere scoperto su Internet. Ma c’è spazio anche per il design tra i suoi universi cultural-visivi di riferimento: A cast of the space under my cheap plastic chair endless column, per esempio, della celebre scultura brancusiana propone una sua versione ottenuta impilando calchi dello spazio sottostante una sedia del suo studio. 

Michael Stipe, “I have lost and I have been lost but for now I’m flying high”, Fondazione Ica Milano. Veduta della mostra Courtesy Fondazione ICA Milano Ph. Dario Lasagni

“L’intero movimento dell’Arte Povera mi ha colpito nel profondo. Così come Superstudio e la mostra ‘Italy: The New Domestic Landscape’” racconta Stipe tentando una genealogia della sua a dire poco eterogenea espressività in cui figura anche la seminale mostra dedicata al design italiano nel 1972 dal MoMA di New York. “Adoro anche il graphic design, quello bello, e sono convinto che sarei andato in quella direzione se la musica non mi avesse rapito quando ero ragazzo. Karel Martens è tra i miei preferiti. Di recente ha collaborato con un produttore di asciugamani. Li ho regalati a mia sorella e suo marito quest’anno!” Vita privata e pubblica si impastano senza sosta nei suoi racconti. Analogamente, al piano superiore della mostra milanese convivono ritratti in forme diverse (fotografici, grafici o plasmati in vasi d’argilla) di amici, muse, eroi tra cui l’attrice Tilda Swinton, l’artista e regista Sam Taylor Wood Johnson, Michael Hutchence, l’indimenticato leader degli Inxs... Un convivio di celebrità creative di cui Stipe è l’anfitrione e insieme l’imbucato. Mi spiego: se c’è un’energia che emana inesorabile dal progetto espositivo è l’irrequietudine di questa leggenda della musica che da sempre frequenta artisti di ogni sorta (Patti Smith è tra i prediletti), eppure possiede l’umiltà e l’entusiasmo schietto di un debuttante. 

Ovunque io guardi, legga, veda, c'è un senso di impotenza che abbonda. I social media e l’istantaneità delle notizie ci rendono tutti esausti e ansiosi.
© Michael Stipe. Photo by David Belisle

Stipe è fermamente convinto che l’arte possa offrire una speranza in questo momento storico costellato di traumi. Il suo Pantheon, che è anche un po’ il nostro, ispirandolo lo protegge dal derivante senso di vulnerabilità - anche qui, sia personale che collettivo - che ricorre spesso nei suoi ragionamenti, in cui certo non teme di apparire sentimentale: “Sono tempi davvero bui. È molto evidente a tutti. Eppure il dolore che ne deriva ci fa desiderare di volarci attraverso con i paraocchi e di non dover affrontare il trauma, per dire, del covid e dei lockdown, dei rifugiati o dei movimenti neofascisti. Ovunque io guardi, legga, veda, c'è un senso di impotenza che abbonda. I social media e l'istantaneità delle notizie ci rendono tutti esausti e ansiosi. Con questo show, speravo di fornire un più ottimistico e, sì, edificante senso di calma contro lo stress. E partire dalla poesia Desiderata (scritta da Max Ehrmann nel 1927 di ispirazione per due dei lavori esposti nda), e celebrare il suo quasi centenario, mi riporta alla mia adolescenza, vissuta ad occhi aperti, e alla grande influenza che quei versi hanno avuto su di me, un giovane sognatore utopico. Offre una salvezza e una comprensione nuda e ovvia. La sua semplicità di pensiero mi sta a cuore.”

© Michael Stipe. Photo by David Belisle

Se fossi stata una sua fan, a quella cena parigina organizzata da Renzo Rosso una decina d’anni fa, dove mi fecero sedere di fronte a Michael Stipe, probabilmente non avremmo parlato d’arte, forse non sarei nemmeno riuscita a rivolgerli la parola, e quasi sicuramente non saremmo rimasti in contatto. Magari avrei continuato a sentire Thomas Dozol, suo compagno da una vita e artista, di cui infatti andai a vedere una mostra a New York di lì a poco. E invece ci reincontrammo nel 2019 e, nell’occasione, mi anticipò la mostra milanese. Nonostante sia una convinta sostenitrice della creatività interdisciplinare, la cosa mi stupì un poco perché fa comunque effetto vedere persone dotate di grande talento, e che hanno ottenuto un successo enorme in un campo, cimentarsi in un altro rischiando l’insuccesso. 


E anche di questo abbiamo parlato dopo questo suo debutto pubblico nelle arti visive, posticipato di tre anni a causa della pandemia, se la fama precedente può costituire una sorta di corazza o se si senta più esposto adesso che si muove nel mondo dell’arte.

“Da una parte mi sento protetto dalla mia reputazione, ma dall'altra essa genera aspettative alte. Credo che i diversi media – video, fotografia, musica – siano intercambiabili. Sono interessi che porto avanti da quasi 50 anni... Solo di recente ho iniziato a capire come esprimerli al pubblico e da solo. Se mi sento vulnerabile a presentare il mio lavoro? Assolutamente sì! Ma è proprio in questo che sta la sfida, e la bellezza. Non la prendo alla leggera: sono troppo orgoglioso per pubblicare qualcosa che non reputo essere il miglior lavoro che potessi fare in quel momento... ma ovviamente sono anche il mio critico più severo. Se fallisco alla grande, beh, allora fallisco e basta... ma lo faccio – spero – con un livello di sincerità e di umorismo alla base, e spero in un pubblico che rida insieme a me di questo tentativo.” In altre parole, esiste il riconoscimento del pubblico, detto anche successo, esiste la professionalità acquisita in oltre 30 anni ai vertici del music business, ma esiste anche la necessità, a prescindere, di esplorare quello che un mio ex professore definiva l’ultimo territorio di libertà che ci rimane: l’arte. E condividere questo viaggio. 

Mostra:
I have lost and I have been lost but for now I’m flying high
Dove:
Fondazione ICA Milano, Via Orobia 26
Date:
dal 12 dicembre 2023 al 16 marzo 2024
Curata da:
Alberto Salvadori

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