Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1073, Novembre 2022.
JR intervistato da Jean Nouvel: “Un mondo a parte”
Il guest editor 2022 ripercorre con l’artista, anche lui francese, la genesi e le tappe del progetto nel carcere di Tehachapi, riflettendo sugli effetti della globalizzazione.
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- Jean Nouvel
- 04 dicembre 2022
Jean Nouvel La globalizzazione urbana è oggi una delle peggiori malattie del mondo: si producono sempre le stesse cose, gli stessi oggetti. È un fenomeno che riguarda anche gli oggetti, quelli che si trovano negli aeroporti, dappertutto. La mondializzazione comporta importare prodotti, non servirsi solamente di quel che si trova localmente, non capire che ogni luogo ha una propria ricchezza e identità. Il carattere non può che nascere da una serie di situazioni particolari, ed è questo ciò che arricchirà il mondo invece di restringerlo.
Edgar Morin difende da tempo la posizione, che apprezzo molto, secondo la quale la mondializzazione è una manifestazione sostanzialmente positiva, almeno per un certo aspetto: la comunicazione tra tutti gli uomini che, in un attimo, anche a distanza, possono parlarsi, vedersi, conoscersi e scambiarsi idee. È un fattore vitale, il più importante dell’odierna globalizzazione, molto più degli inconvenienti che tutti conoscono: questa specie di clonazione di qualunque situazione in ogni luogo, senza alcun senso, per puro profitto capitalistico.
Vorrei parlare di questi temi, secondo quello che pensi, che fai e secondo la tua esperienza. Vorrei poter sviluppare queste idee sulla globalizzazione urbana e sui suoi risvolti, in modo da dimostrare che non si tratta di una posizione ideologica antimondializzazione, dato che essa, in certi casi, può anche avere risvolti positivi.
JR Su questa posizione di Edgar Morin – che la comunicazione a distanza, tra persone che non si conoscono, sia forse uno dei pochi effetti benefici di questa globalizzazione – sono ovviamente d’accordo, come su tutto il resto. Ogni grande innovazione ha in sé una certa forza, ma anche un’enorme debolezza: ci sono persone che non escono più di casa, da quando possono conversare online. Il mio lavoro si basa su due punti molto precisi. Il primo è che le persone abbiano voglia d’incontrarsi anche fuori casa. La tentazione di rimanere dentro le mura domestiche è grande, oggi, perché si ha la possibilità di visitare il Perù in modo virtuale con un visore, si può parlare e vedere gente che sta dall’altra parte del mondo grazie a FaceTime. Ci sono persone che sono diventate amiche senza mai essersi incontrate. Secondo me, invece, se c’è una cosa che non si potrà mai sostituire, quella è il rapporto umano fisico. Credo che anche quei canali possano fare durare questo rapporto, l’aspetto fisico è necessario e vitale.
JN Queste informazioni e questi contatti spingono al viaggio, spingono ad andare a trovare gli amici che non hanno mai avuto occasione d’incontrarsi, che non si sono conosciuti di persona.
JR Proprio così, il contatto diretto tra le persone permette di conservarne il legame. È stata la base di tutta la mia opera perché, quando avevo 17 o 18 anni, Internet era agli inizi, l’ho conosciuto prima del cellulare, dei social. Il mio lavoro artistico si è sviluppato in quegli anni, ha sempre implicato di poter coinvolgere nel processo persone che non conosco, che incontro su Internet e che invito, lanciando una bottiglia in mare. Le persone vengono a collaborare a collage partecipati. Quando se ne vanno, non sono orgogliosi dell’opera, ma piuttosto degli incontri che sono riusciti ad avere nel corso del processo artistico. Per me, l’opera è il processo del fare l’opera. L’esempio specifico che mi sembra più pertinente di altri per esprimere il mio pensiero in merito è quello di una prigione di massima sicurezza in California, che si chiama Tehachapi.
È un posto tagliato fuori dal mondo, da qualunque scambio con l’esterno, un carcere di livello 4. Perfino all’interno, i rapporti tra guardie e carcerati sono molto complicati. Quando non sono chiusi in cella, i detenuti possono parlare tra loro solo in cortile. Tra guardie e carcerati c’è un muro: non fisico, ma comunque reale. Mi sono ritrovato a lavorare in questa prigione grazie al governatore della California che, per caso, prima di essere eletto, aveva partecipato a uno dei miei affreschi. Ho avuto il permesso di entrare nel carcere portando con me il mio telefonino. Quando sono uscito, avevo per l’appunto l’idea di realizzare un’opera d’arte con i detenuti e mi dicevo che sarebbe stato interessante coinvolgere le guardie, ma anche le vittime, farli parlare tutti insieme in un medesimo affresco e registrare i racconti di ciascuna delle persone. Una volta sul posto, mi sono reso conto che il mio telefono era un collegamento straordinario per portare all’esterno il progetto, grazie alla comunicazione che, in un posto come questo, non esiste. I social, quindi, sono stati parte integrante del progetto nella misura in cui potevo condividere online le discussioni e i dialoghi che avevo avuto con i detenuti. È sato istintivo farlo. Spesso, questo è il modo in cui realizzo i miei progetti.
Uno dei carcerati coinvolti si chiama Kevin. Aveva una svastica tatuata in faccia, cosa che mi pareva impensabile, se non in un film. La prima domanda che gli ho rivolto è stata: “Come ti sei trovato questa cosa in faccia?”. Mi ha guardato come se ne avesse dimenticato l’esistenza. Mi ha detto che era semplicemente il simbolo di una banda del carcere: “Se potessi, me la farei cancellare”. Perciò, ho postato in Rete un suo ritratto, cosa che ha suscitato parecchi commenti, e glieli ho mostrati. Dato che erano più di 17 anni che si trovava in prigione, gli ho spiegato i principi di funzionamento dei social, che le persone dall’altra parte del mondo non avevano la minima idea del contesto in cui lui si era fatto quel tatuaggio e del perché voleva toglierselo. Per tre o quattro giorni, ho girato video che postavo in diretta dal carcere e gli ho letto i commenti. Ho potuto constatare la forza dell’effetto che avevano su di lui: non aveva mai ricevuto tanta attenzione, tanto amore e tanto odio in una volta sola. I video sono stati notati anche all’interno del carcere: dalle guardie, dai famigliari (compresi i suoi), e dal mondo intero.
Per tre anni, sono tornato in quella prigione a trovare Kevin, che aveva sempre il tatuaggio. In carcere era impossibile farlo togliere, ma la “catena umana” di sostegno venutasi a creare in Rete lo poteva rendere possibile. Sfortunatamente, il Covid-19 ha deciso altrimenti, il processo si è interrotto, ma ho comunque potuto continuare a fargli visita. È stato allora che ho chiesto ai detenuti di raccontarmi qual era stato l’effetto dell’app gratuita JR Mural su cui i loro file audio erano stati diffusi. Basta cliccare su uno qualunque dei volti per ascoltarne il racconto. Dato che in prigione non è permesso avere il cellulare, l’app non ha avuto alcun effetto diretto su di loro, ma ne ha avuto sulle loro famiglie. La figlia diciottenne di Kevin, per esempio, non era mai andata a trovarlo, pensando che non meritasse il suo affetto. Alla fine, ha ascoltato il suo racconto. “Mi ha ascoltato in un modo in cui non avrei mai potuto esprimermi se fosse venuta a trovarmi in parlatorio. In questi 40 minuti di audio mi sono lasciato andare, ho pianto, ho spiegato da dove venivo e come mi sono ritrovato qui. Da allora, lei viene a trovarmi ogni settimana. Chiedi a qualunque carcerato del gruppo, la maggior parte delle loro famiglie ha ripreso i contatti”, mi ha detto. Altre persone al di fuori – le guardie e il direttore della prigione, per esempio – hanno ascoltato i racconti e, a loro volta, hanno iniziato a parlare.
Le persone collaborano a collage partecipati. Quando se ne vanno, non sono orgogliosi dell’opera, ma piuttosto degli incontri. Per me, l’opera è il processo del fare l’opera
Improvvisamente, quelle persone non sono state più considerate come bestie, ma come uomini. Ovviamente, violentatori e omicidi erano esclusi dal gruppo, che comprendeva però chi era detenuto già da 15 o anche 19 anni. Erano stati condannati a lunghe pene per varie ragioni: per esempio, perché implicati nelle bande o a causa della Three Strikes Law, la legge statunitense che condanna all’ergastolo chiunque commetta un terzo reato, anche se i primi due sono di entità minore.
Grazie a questo progetto, il 100 per cento dei detenuti coinvolti è stato trasferito in prigioni di minor sicurezza – livello 2 o 3 – e un terzo di loro è stato scarcerato, per la semplice ragione che l’arte ha messo in evidenza il fatto che erano cambiati. Anche le guardie hanno testimoniato in favore della loro liberazione, cosa che è stata decisiva quando si sono presentati davanti al Parole Board (la commissione che decide in merito alla libertà condizionata). Kevin, così, è uscito dal carcere. Per prima cosa, si è fatto togliere il tatuaggio. Quel giorno ero con lui, eravamo in un centro sociale. È un’operazione che comporta parecchie sedute, ma la prima è molto importante, soprattutto sul viso perché l’intervento è particolarmente doloroso. Alla fine, la dottoressa gli ha detto: “Chi meglio di me, che sono ebrea, per cancellarti il tatuaggio?”. È stato un momento commovente, lui si vergognava.
È interessante che in prigione gli altri detenuti, di differenti origini, non lo considerassero un estremista. Sapendo quanto fosse cambiato, quel tatuaggio per loro non significava più nulla. In compenso, nella società civile, le persone si voltavano dall’altra parte, impaurite. Kevin si è reso conto che non poteva più vivere con il suo tatuaggio, l’urgenza di toglierselo era estrema. Il nocciolo del progetto è certamente dare e ricevere una seconda occasione. Per me, è soprattutto l’occasione che si è venuta a creare, i legami di comunicazione con persone che non incontrerà mai, ma che, a un certo punto, hanno creduto in lui; cosa che in un mondo passato, meno globale, sarebbe stata impossibile. La sua famiglia avrebbe sempre avuto problemi ad andarlo a trovare, le guardie avrebbero sempre pensato di lui la stessa cosa – lui con il suo tatuaggio in faccia – e, di fatto, nessuno gli avrebbe dato una possibilità. Tutti questi collegamenti gli hanno permesso di uscire. Tutti se ne sono interessati, perfino lo Stato si è convinto che quest’uomo era cambiato.
Il mio lavoro esiste grazie alla globalizzazione. Il fatto di poter spedire stampe di ritratti di persone ai quattro angoli del mondo, persone che me li hanno a loro volta trasmessi senza mai incontrarmi, persone che vogliono difendere un giardino pubblico o la propria libertà d’espressione in Iran o, ancora, battersi per la democrazia in qualche altro luogo – perché questo diventa il loro progetto, sono loro che iniziano a postare – è possibile solo grazie alla globalizzazione. Mantengo, comunque, un perimetro molto stretto per realizzare questi progetti. Il mio solo mezzo di difesa per tutelare tutti gli altri elementi che hai elencato prima consiste nel non permettere che né i prodotti, né le marche, né i Governi li finanzino, in modo da essere totalmente indipendenti. Contribuisco a fare viaggiare questi racconti senza che siano asserviti al profitto di un prodotto estraneo, che non avrebbe niente a che vedere con loro.
JN Questi racconti sono, per l’appunto, all’origine della globalizzazione economica e sono, per l’appunto, criticabili sul piano umano e filosofico, come dice Edgar Morin.
JR Proprio così. È per questo che non proclamo: “Abbasso il capitalismo!”. Per ora non abbiamo trovato un modello migliore. In ogni caso, cerco di rendere il mio processo il più puro possibile, anche se il modo di finanziarlo resta vendere le mie opere. Reinvesto quello che ho venduto nei miei progetti; questo mi dà la libertà completa di decidere dove, quando e come realizzarli. È l’unico modo che ho trovato e che funziona. Questo progetto in carcere sarebbe stato differente se avesse avuto il sostegno di Chanel, di Coca-Cola o di Nike, per esempio. Quelle persone hanno condiviso il loro racconto con l’unico scopo di condividerlo. La forza dell’arte non sta nel vendere un berretto o una T-shirt, ma nello stimolare la riflessione, nel fare emergere le domande. Se hai da mangiare e da bere a sufficienza, la domanda da porre è: “Perché sono qui?”. Credo che l’arte sia uno dei modi più potenti per chiedersi quali tracce lasciamo.
La forza dell’arte non sta nel vendere un berretto o una T-shirt, ma nello stimolare la riflessione, nel fare emergere domande
JN Suscitare emozioni.
JR Esattamente. I carcerati hanno rilasciato testimonianze incredibili, molto profonde. Non sono interviste vere e proprie, non sono un giornalista e non sono qui per giudicarli o interromperli. Per metterli nello stato d’animo giusta, ho detto loro che la storia che avrebbero raccontato avrebbe raggiunto qualcuno come me, che non li conosce. Non sapevo nemmeno che queste carceri di massima sicurezza esistessero, pensavo che esistessero solo nei film. Per farli partecipare, occorreva che uscissero dal mondo in cui sono cresciuti e che cercassero di spiegare, in modo molto semplice, comprensibile anche a un bambino di quattro o cinque anni, quello che era capitato nella loro vita.
È l’esempio a cui tenevo particolarmente e di cui volevo parlare, perché un carcere, in fin dei conti, è il luogo più chiuso non raggiunto dalla globalizzazione. La cosa abbastanza impressionante, quando si parla con questi detenuti, è che la loro capacità d’attenzione è al 100 per cento, dato che nella loro vita non ci sono telefoni, non vengono disturbati ogni due minuti da qualcosa. Quando gli si parla sono presenti, è come parlare a uomini di 20 anni fa. Poi ci si rende conto che in noi qualcosa è cambiato riguardo all’attenzione. Alla fine di ogni giornata, ero sfinito perché la presenza che mi era richiesta era senza sosta; mi trovavo lì, assorbito in conversazioni reali. In un carcere, poi, non ci sono annunci pubblicitari o altre distrazioni, si è continuamente immersi nei rapporti umani, soprattutto nell’ambito di progetti come questo. Una volta tanto, si ha la possibilità di avere uno scambio che dura tutto il giorno senza essere interrotti dal ritmo brutale del carcere.
Questo progetto non rappresenta tutto il mio lavoro nelle comunità: in qualche caso i miei lavori durano 15 o 20 anni. C’è qualcosa, però, che paradossalmente accade grazie alla globalizzazione – i legami della comunicazione – in questa microsocietà che è il riflesso della società esterna, ma è tagliata fuori dalla globalizzazione. So che ciò forse non si ripeterà, perché è molto complicato, soprattutto per tutte le derive che potrebbe implicare, ma il fatto che un telefonino sia potuto entrare nel carcere e quindi agire da legame con l’esterno ha cambiato le cose. Proprio in questo momento, questo caso è oggetto di studio da parte del Governo americano. Sono anche venuti, nel corso di questi tre anni, a constatarne gli effetti, a osservare i cambiamenti, le azioni che questo progetto è riuscito a sviluppare. Tutto ciò mi dà una speranza immensa. Non ho realizzato nessuna intervista, ho semplicemente postato i video sui social. Questa app è stata scoperta dal pubblico per caso.
Essendo il carcere un mondo a parte, con tutte le persone che vi sono legate – le famiglie e via dicendo – si è parlato anche di questo “buco gigantesco” che ho fatto nel cortile della prigione e, quindi, l’’immagine ha fatto il giro del mondo. Si può anche fare la tara al numero di persone che ascoltano questi racconti: è come al cinema, molti conoscono il manifesto di un film, ma il numero delle persone che lo vanno a vedere è più ridotto. Non sono davvero i numeri che contano, ma l’effetto. Poco importa quante persone abbiano ascoltato. In carcere, l’impatto è stato sufficiente a far sì che le famiglie, le guardie e i funzionari del Governo abbiano ascoltato, e a fare sì che condividere la propria storia abbia permesso di cambiare la percezione che hanno gli uni degli altri.
Abbiamo realizzato altri progetti interessanti. Non potevo tornare indietro senza un’idea, senza qualche cosa. Sullo sfondo, ci sono le montagne e il deserto, ovviamente ci sono muri tutt’intorno. Ho incollato la foto delle montagne sul muro. Il che significa che, quando si guarda l’immagine, che in realtà è un trompe-l’oeil, i muri scompaiono. Mi hanno obbligato a lasciare scoperta la base del muro, per ragioni di sicurezza: le misure sono talmente strette che le guardie nel cortile non ci entrano nemmeno, stanno sulle torrette, con le armi in pugno. Quando c’è una rissa, sparano in aria e non intervengono finché tutti i detenuti sono stesi a terra. Ho scattato in bianco e nero perché, a colori, l’illusione che il muro non esistesse sarebbe stata più forte. Il bianco e nero è un primo passo verso l’esterno, ma il muro resta, è una presenza reale. Quando, invece, arriva l’inverno, dato che in montagna nevica, tutto diventa bianco e nero, e il falso muro diventa reale. Spesso sono le guardie a mandarmi delle foto.