Devo riconoscere che quel dramma definitivo scritto da Peter Weiss nel 1964, testo capitale del teatro della crudeltà, che si chiama La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat, rappresentato dalla compagnia filodrammatica dell’ospizio di Charenton sotto la guida del Marchese de Sade, o più semplicemente il Marat/Sade, mi torna alla mente ogniqualvolta mi trovo davanti un artista che tira fuori appunto questa sua materia artistica dalle pieghe dei rapporti con una qualche comunità di persone del tutto estranee all’arte, come è qui il caso di Sharon Lockhart (americana, classe 1964), che incontro in occasione della sua mostra in quella che fino al 2002 è stata la Manifattura Tabacchi di Modena (oggi MATA, sede temporanea di Fondazione Fotografia e che prima fu magazzino di salnitro, ospedale e monastero).
Di Lockhart – il cui approccio socialmente impegnato alla fotografia e al video unisce documentazione e re-enactment– si ricorda, per esempio, il ritratto perfettamente disegnato (12 foto e un film 16mm) della squadra di basket femminile di una scuola di Goshogaoka, un sobborgo di Tokyo (Goshogaoka Girls Basketball Team, 1998) con le ragazze che lanciano a canestro o aspettano di ricevere la palla in pose congelate. Oppure il lungo girato di 83 minuti con la camera che lentissimamente scivola per il lungo corridoio di un cantiere navale durante la pausa pranzo di un gruppo di lavoratori (Lunch Break, 2008). Oppure il suo progetto (foto, film e workshop) per il padiglione polacco alla scorsa Biennale di Venezia (Mały Przegląd [Little Review], 2017), ispirato all’educatore Janusz Korczak (1878-1942) e che ha visto partecipi le giovani donne del centro giovanile socio-terapico di Rudzienko.
Ciò che interessa del dramma di Weiss, e perché sia utile per farne qui un discorso sulla Lockhart, non è tanto il suo domandarsi, fra le altre cose, se una stessa verità debba valere per i “capi” come per le “masse”, quanto il fatto che egli parta da un dato storico: tra il 1797 il 1811 il direttore del manicomio di Charenton, l’Abbé de Coulmier, promosse fra i suoi pazienti delle libere rappresentazioni teatrali. Ecco, ho sempre pensato che la maggiore preoccupazione di artisti come Lockhart, glielo dico e lei annuisce, preoccupazione che fu tanto maggiore per l’Abbé de Coulmier, fosse quella di far comprendere esattamente a, diciamo, attori di vita corrente e non di palcoscenico (adolescenti, bambini, operai)ciò che viene loro chiesto di mettere in scena o la ragione per cui dovrebbero ove mai finire in un museo.
In questa mostra la realtà del lavoro salariato è tradotta da Lockhart in forme semplici e a portata di mano, prova ne sono le bellissime fotografie degli spogliatoi maschili e femminili delle sedi del gruppo BMW a Berlino, Messico e Spantarburg (Men’s Locker Room Women’s Locker Room BMW AG, 1998), così come quelle ai banchetti freddi apparecchiati, contro il volere del caporalato, dagli stessi operai che vediamo in Lunch Break, in un gesto di accusa per le merci vendute a prezzi gonfiati (Dirty Don’s Delicious Dogs, John’s Java Hut, Moody Mart, The Pipecoverer’s Café, Handley’s Snack Stop, 2008). Accanto a queste storie si collocano, per volontà della direttrice della Fondazione Modena Arti Visive Diana Baldon e del curatore Adam Budak, quelle di lavoratori modenesi: a un tiro di sasso dalle fotografie di Lockhart stanno gli scatti molto datati (anni Sessanta) di provenienza dell’archivio Botti e Pincelli, messi qui a dare testimonianza di manifestazioni di protesta e quasi riproponendole come spettacolo (vediamo agricoltori distribuire patate agli operai o riversare latte sulle strade per esprimere dissenso verso le politiche economiche del governo dell’epoca).
Pure, si è invitati a sfogliare certi “Registri delle Multe”, dissotterrati dagli schedari della Manifattura Tabacchi, e a far correre il dito sui lunghi elenchi di punizioni inflitte alle, per lo più, lavoratrici salariate, per via di, per esempio, “sigarette male incollate” o perché “sorpresa in laboratorio a mangiare un’arancia”. Ecco, tutto il senso di disciplina e controllo (e di aggressione esplicita), come pure l’idea di un “movimento in potenza”, di suspense, quale può essere il gesto di buttare via il latte, informano il nuovo lavoro realizzato da Lockhart per questa mostra (intitolata “Movements and Variations”), che consiste in un gruppo di sculture fatte con calchi in bronzo di rametti raccolti dall’artista in Sierra Nevada e arrangiati sopra basamenti in sei differenti composizioni da un maestro di Ikebana (A Bundle and five Variations, 2018), e in nove fotografie dove si vede una donna vestita di nero e con lunghi capelli neri impugnare uno dei rametti e irrigidirsi in pose, per esempio da guerriera, molto coreografate (Nine Sticks in Nine Movements, 2018). La donna ci rivolge quasi sempre la schiena, solo in un caso ci guarda, e Lockhart sorride quando le dico di ricordare una sua dichiarazione in cui lei si stupiva di come sua madre usasse fotografare le persone, sempre di spalle. Anche qui l’identità viene a mancare, contano i gesti e le relazioni. I gesti non si esauriscono nell’attimo stesso in cui si realizzano ma, nella loro fissità, si mostrano soltanto. E le relazioni, sembra dirci l’artista, fra rametti recisi come fra gli uomini, si costruiscono per via di composizioni più o meno artefatte e sempre variabili.
- Titolo mostra:
- Sharon Lockhart. Movimenti e Variazioni
- Date di apertura:
- 7 aprile – 3 giugno 2018
- Sede:
- MATA – Ex Manifattura Tabacchi
- Indirizzo:
- via Manifattura Tabacchi 83, Modena
- Curatori:
- Adam Budak, Diana Baldon