Matt Mullican è per certi versi un artista inafferrabile, la sua ricerca ha una tale quantità di sfaccettature che sembra impossibile riuscire ad afferrarle tutte dentro a un unico sguardo, per avvicinarsi alla sua ricerca è necessario spostare continuamente il proprio punto di vista perché il suo pensiero rapido passa fluidamente, senza intoppi e con connessioni sorprendenti dalla religione alle interfacce digitali, dai simboli all’introspezione psichica, dalla realtà virtuale all’ipnosi. Lo abbiamo incontrato durante l’installazione di “The Feelings of Things”, la sua nuova mostra all’HangarBicocca a Milano.
Milano. Matt Mullican in mostra all’HangarBicocca
Realtà virtuale, ipnosi, fede e cosmologia. Conversazione con l’artista americano alla vigilia della sua più grande personale: 5.000 metri quadrati e migliaia di opere.
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- Angela Maderna
- 09 aprile 2018
È uno spazio enorme e difficile in cui lavorare, per varie ragioni. Come lo userai e quale forma gli darai?
È uno spazio davvero travolgente. Ogni mostra che realizzo è una ricognizione, e questa è la prima in cui faccio architettura. È come se mi avessero dato una piattaforma vuota per costruirci un museo di me stesso. Lavoro sulla chimica interna del corpo del visitatore: il corpo, mentre cammina in un grande spazio vuoto come questo, lo percepisce, e il mio compito ora è renderlo più grande. Si vede sempre tutto lo spazio, vado da un lato all’altro, dal soffitto (gli stendardi creano la scala e diventano architettura) al pavimento, con tutto quel che sta in mezzo. Non credo che in vita mia avrò mai più un’esperienza simile. Questa mostra sembra simile a un’immagine computerizzata, un’interfaccia. Il MIT Project – che fa parte della mostra – comprende una serie di pareti basse, come in questa installazione; ed è una cosa che è entrata a far parte del mio repertorio da quando mi dedico alla realtà virtuale. È un’architettura dell’organizzazione, fondata sull’informazione classificatoria, e perciò è un’architettura molto vicina al mondo del telefono: è come se dovessi creare un’interfaccia dentro la quale si può camminare.
Hai parlato di realtà virtuale. Nella tua opera quale rapporto c’è tra realtà e finzione narrativa?
La finzione è una parte decisamente importante della mia opera. Ciò che è immaginario non è necessariamente reale, ma neppure quel che vediamo è necessariamente reale: come si fa a definire la realtà? È una delle massime domande cui i filosofi da sempre cercano di dare risposta, e come artista mi trovo ad affrontarla. Ho lavorato con gli schemi luminosi perché la luce è ciò che gli occhi vedono quando guardano le cose, ma lo schema è una costruzione della mente. Per rappresentare questa realtà ho usato delle linee schematiche: il pupazzetto Glen (la più semplice rappresentazione della forma umana), perché mi interessava molto come si entra in empatia con l’immagine, una cosa molto vicina al cinema, al teatro e anche alla letteratura. Glen è la finzione narrativa e questa reazione empatica corrisponde a qualcosa che mi interessa sempre di più. Se tutto ciò che si vede sono schemi luminosi, in questi schemi dove sta la vita? Sta in un linguaggio che il mio cervello comprende.
Anche qui c’è un riferimento alla percezione, che nella tua opera non è solo percezione visiva.
Certamente.
Che cosa pensi dell’ipnosi?
L’ipnosi: una finzione in cui gli attori credono. Come si distingue una finzione da una non-finzione? La non-finzione è quando il corpo rilascia composti chimici reali. Nel 1977 volevo realizzare una forma di teatro che fosse reale, in cui gli attori vivessero davvero le cose che facevano, e la realizzai con degli attori che recitavano in stato di trance. Da questa performance ho ricevuto reazioni negative e perciò a partire da quella seguente ho cominciato a mettere in stato di ipnosi me stesso. Vivendolo, capisco che siamo sempre in stato di trance, perché c’è una parte di me che non è mai presente e una che è sempre presente: ora che abbiamo gli smartphone, per la strada si sentono cose strane, gente che non è dove la si vede perché bada al telefono per scattare foto o per capire dove si trova, e via dicendo. Stanno in questo mondo alternativo, il mondo che mi interessa. Dopo essere passato alla realtà virtuale il mio interesse per l’ipnosi è cresciuto: nella realtà virtuale c’erano – era una cosa rudimentale – dei sensori e un quadrato segnato sul pavimento con del nastro adesivo, entro il quale dovevi stare. Quando mi invitavano a certe mostre che riguardavano questi ambienti virtuali io, anziché disegnare per terra il quadrato con il nastro adesivo, mi rivolgevo a un ipnotista che mi diceva che in quel quadrato la situazione era differente. Quel che succedeva era che il quadrato diventava un confine mentale, e mi riproiettava in quella persona che diventava anche l’artista che nel 2005 aveva creato quei sette ambienti per la mostra al Ludwig Museum.
Parlami della tua cosmologia.
A proposito di finzione, la finzione più importante è la religione: una finzione che diventa davvero pericolosa. Ma se si risale lungo la storia del mondo, lungo la storia dell’arte, si arriva direttamente alla religione. Sono cresciuto senza alcun tipo di religione, ma da piccolo avevo una gran fantasia e perciò a volte mi chiedevo “Dov’ero prima di nascere?” o mi immaginavo mentre sceglievo i miei genitori, e così via. Così mi sono creato una mia cosmologia, in risposta alle domande: “Dov’ero prima di nascere?”, “Perché le cose nel corso della vita succedono come succedono?” e “Che cosa accadrà quando sarò morto?”. Questa è l’essenza della cosmologia: dà un contesto alla vita. Tutte le cosmologie lo fanno, la mia non è una cosmologia perché una cosmologia è fondamentalmente sociale, mentre la mia è un’opera d’arte, è una cosmogonia. Così ho iniziato a occuparmi di Dio, degli angeli, dei diavoli, della fede, del paradiso, dell’inferno. Ho sempre avuto dei problemi con questi temi, che nella storia dell’arte sono centrali. Oggi comunque è un tema difficile da trattare e alcuni, di fronte a questo aspetto del mio lavoro, si innervosiscono. Ma è una tensione che desidero, è un problema che voglio avere, l’ho adottato.
- Matt Mullican. The Feeling of Things
- 12 aprile – 16 settembre 2018
- Roberta Tenconi
- HangarBicocca
- via Chiese 2, Milano