Giunta alla quindicesima edizione e da poco inaugurata con il titolo “A Good Neighbour”, la Biennale d’Arte di Istanbul ha alle spalle 30 anni di curatori e di collaborazioni di alto livello, che ne hanno fatto una delle maggiori piattaforme internazionali per l’arte contemporanea. Nei decenni passati ha potuto godere di un contesto vibrante e in crescita: Istanbul, infatti, si è andata evolvendo dal punto di vista culturale in modo graduale, ma inequivocabile; tanto da arrivare a competere con i grandi centri europei. La caotica vitalità che da sempre la contraddistingue non ha fatto che contribuire ad alimentare il fermento creativo. Il destino della città è però cambiato bruscamente con l’accelerazione autoritaria verificatasi in occasione delle proteste di Gezi Park. Nel susseguirsi delle edizioni della biennale e nelle scelte dei curatori è leggibile questo decorso.
A Good Neighbour: la Biennale di Istanbul di Elmgreen and Dragset
Scegliendo il tema del vicinato, il duo di artisti scandinavi Elmgreen and Dragset raccoglie la non facile sfida di dirigere la 15. Biennale di Istanbul: 60 artisti e 6 sedi per un evento che va al di là dei limiti imposti dalla situazione politica.
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- Gabi Scardi
- 17 ottobre 2017
- Istanbul
Basti pensare che nel 2007 Hou Hanru si focalizza sull’energia della città e sui contraddittori, ma vitali, processi collettivi legati a questo complesso territorio. Nel 2009, il collettivo What, How & for Whom incentra la mostra sulla necessità dell’arte di essere politica e sull’urgenza di rifondare il mondo sulla base di principi brechtiani. Due edizioni dopo, nel 2013, Fulya Erdemci, interessata alla convergenza tra arte e attivismo, si trova presa nel pieno delle proteste anti-governative di piazza Taksim; mentre per le strade la tensione si fa esplosiva, il suo progetto è accusato di essere superato dalla realtà e lei deve rinunciare a molti degli spazi pubblici all’aperto nei quali aveva previsto di estendersi. Ciononostante, lo spirito della protesta permea la mostra. Nel 2015, la città vive un momento di cupezza; la tensione è palpabile. La Biennale curata da Carolyn Christov-Bakargiev offre momenti di grande spettacolarità. Il nesso cultura–geopolitica è dichiarato; le questioni più cogenti, però, vengono per lo più trattate in maniera laterale.
Oggi in Turchia la macchina del controllo politico è in piena attività. I limiti di ciò che è permesso fare sono chiari. Il diritto a pensare ed esprimersi liberamente è negato. Paradossalmente, in città la situazione appare più calma, ma è chiaro che le cose restano difficili. Molti media sono stati messi a tacere. Di fatto, il Paese è diviso tra i sostenitori del Governo e gli altri, considerati “terroristi”.
Questa quindicesima Biennale è affidata a un duo di artisti scandinavi, Elmgreen & Dragset, che l’ha incentrata attorno alla questione del buon vicinato: come scrivono nella premessa del bellissimo e utilissimo catalogo, “il tuo vicino potrebbe essere qualcuno che vive una vita molto diversa dalla tua. E speriamo che tu, diversamente da molti politici di oggi, non scelga di affrontare la paura dell’altro, alzando un muro”. Elmgreen & Dragset ha quindi stilato un lungo elenco di domande attorno a questa nozione da porre a circa 60 artisti; 40 di loro hanno avuto la possibilità di produrre opere nuove.
Quest’anno, le sedi sono sei, rispetto alle decine delle edizioni scorse, e tutte concentrate in una medesima area per una rassegna circoscritta e con una compattezza mai avuta prima. Tra i motivi di questo nuovo assetto c’è sicuramente la scelta di dare spazio e visibilità a ognuna delle opere: un’attitudine comprensibile da parte di due curatori-artisti e assai gradita, a fronte di mostre ormai titaniche, che sacrificano disinvoltamente la fruibilità al numero. E, in effetti, ogni opera gode di uno spazio considerevole. Ma il numero ridotto di location può essere interpretato anche come scelta, da parte dell’ente organizzatore, l’IKSV, di mantenere il maggior grado possibile d’indipendenza di azione, limitando la necessità di negoziare spazi pubblici.
La Greek School, chiusa nel 2007 e da allora adottata come spazio espositivo dalla Biennale, vede coinvolti 15 artisti, la maggior parte dei quali ha per sé lo spazio di un’aula o una parte dello scalone. Pedro Gomez-Egana occupa l’ampio e alto salone centrale, oscurato completamente, con un’articolata struttura architettonica, al cui interno s’intravvedono appena singole figure, furtive, rincantucciate in posizioni diverse. Tutt’altro che confortevole è l’installazione Our Family Lost di Leander Schönweger, al piano più alto dell’edificio. In questo caso, la struttura è candida; ma labirintica. Ci troviamo ad attraversare una serie di porte, che però si fanno sempre più piccole, fino a diventare inagibili. L’architettura ha perso funzionalità e vive di vita propria, in maniera inquietante. E il senso di perdita e d’isolamento che sperimentiamo risponde a un’impressione di atomizzazione della vita sociale.
Tra queste due installazioni, ai diversi piani dell’edificio, si trovano numerose opere di forte impatto; come il video dell’artista curdo Erkan Ozgen, dove un bambino siriano fuggito da Kobane, racconta a gesti le vicende vissute; o come il video allegorico di Heba Y. Amin che offre una serie di considerazioni in merito al rapporto tra individualismo e moltitudine. Tornano a parlare di controcultura che si sviluppa nell’ombra i due statunitensi Jonah Freeman e Justin Lowe con Domain of Things: un’installazione immersiva composta di tante stanze in ognuna delle quali viene messa in scena un’estetica specifica. La collettiva ospitata nella Greek School è particolarmente intensa e organica. Come lo è il confronto messo in scena al Pera Museum tra le collezioni di pittura, ceramica e manufatti rappresentativi della cultura ottomana e turca e le opere dei circa 20 artisti qui dislocati: Tatiana Trouvé con le sue installazioni che evocano forme architettoniche e incorporano mappe delle migrazioni di oggi; Berlinde de Bruyckere; Louise Bourgeois; Andra Ursuta, i cui minuti ma esattissimi modelli di ambienti domestici della casa natale, in un villaggio in Romania, toccano e commuovono; Fred Wilson, al quale è dedicata un’intera, ampia sala; la turca Gözde İlkin, che lavora con tessuti e indumenti per raccontare la vita domestica e i suoi codici.
Decisamente più rigida è la selezione dell’Istanbul Modern, il centro di arte contemporanea situato nell’area industriale affacciata sul Bosforo oggi in fase di rapida trasformazione, ed esso stesso in procinto di essere dimesso. Qui l’aspetto museale sembra aver preso il sopravvento e l’insieme è dominato da alcune costanti: una tendenza al bianco e nero, la presenza di materiali da costruzione o legati all’abitare urbano, una scarsità di dialogo tra le opere che, essendo l’ambiente unitario, diventa un limite evidente. Proprio qui, però, si trova una delle rare opere che si confrontano direttamente con la situazione attuale della Turchia. È Crowd Fade di Latifa Echakhch: un’artista di origine franco-marocchina che presenta un’installazione di ampie dimensioni che offre uno dei momenti più efficaci, oltre che più frontali, della mostra.
Sono potenti anche i lavori di Monica Bonvicini e Stephen G. Rhodes rispettivamente nelle sezioni maschile e femminile dell’antico Küçük Mustafa Paşa Hammam, collocato in un quartiere conservatore. Bonvicini, da sempre attenta alla relazione tra architettura, sesso e potere, espone tra l’altro, nella parte maschile dell’Hammam, il grande quadro Weave This Way, composto di frammenti di corpi femminili, e l’opera Belt Out: un cubo nero come la Ca’ba realizzato con cinture di cuoio da uomo. In un Paese in cui la separazione dei sessi può ancora essere un dato di fatto, queste sono scelte significative.
Del resto, i curatori hanno prestato ampia attenzione alla questione della diversità, che emerge in molte opere, con una certa radicalità. Il tema del vicinato, invece, inerentemente politico, resta affidato a una trattazione meno diretta. Probabilmente, in una situazione complessa come quella della Turchia attuale, espressioni esplicite avrebbero rischiato di pregiudicare la possibilità di agire. Questa biennale non dev’essere stata una sfida facile; prova ne sia che dell’ironia maliziosa ed enigmatica che i due mettono in campo quando si muovono come artisti, qui non c’è traccia.
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- 15. Istanbul Biennial
- A good neighbour
- 12 settembre 2017 – 12 novembre 2017
- Bige Örer
- Elmgreen & Dragset
- Istanbul Modern, Pera Museum, ARK Kultur, Galatha Primary Greek School