“Ma come si fa a mangiare? È immasticabile!” Le parole concitate di una bambina di quattro anni, seduta a cavalcioni sulle spalle di suo padre, fendono l’aria soffice e dorata che avvolge la retrospettiva di Meret Oppenheim al MASI di Lugano. Il suo ditino inquisitore punta una statuina di pane conservata in una teca – la forma dovrebbe ricordare un pezzo del gioco degli scacchi, la Donna o Regina bianca – farcita di ossa di pernice disposte a mo’ di spina dorsale. Coltello a destra, forchetta a sinistra, la Regina giace su un tovagliolo, nell’incavo di un piatto ottagonale, su di una tovaglietta-scacchiera. Il vino, si legge nella didascalia a muro, è evaporato. Quest’opera, del 1966, che Oppenheim dedicò all’amico Duchamp, s’intitola Bon Appétit Marcel!
Meret Oppenheim
Attraverso un centinaio di pezzi, la mostra su Meret Oppenheim al MASI di Lugano procede per forza di accostamenti, debiti e crediti e affinità, come suggerisce il titolo, da Max Ernst a Mona Hatoum.
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- Ilaria Bombelli
- 06 aprile 2017
- Lugano
La bambina fa una smorfia. “È arte”, prova a dirle la madre, “è una provocazione”. Ma lei, non sazia, metterà di nuovo alla prova i suoi impreparati genitori quando, mezz’ora più tardi, si troverà davanti al naso due guanti celestini irrorati di vasi sanguigni (Oppenheim, Guanti [Coppia], 1985, che qui fanno il paio con quelli in bronzo di André Breton, Guant de femme aussi, 1928 ca.) e due polacchini da donna uniti per la punta (Oppenheim, La coppia, 1956, esposti assieme ad altre improbabili calzature, come quelle, con tanto di dita dei piedi, dipinte da Magritte in una nota gouache [Le modéle rouge, 1947]). La bambina guarderà i due stivaletti attaccati come gemelli siamesi, poi le sue di scarpine, e dirà: “Mamma, ti ricordi quando mi hai comprato due sinistre?”
Ecco, l’arte di Meret Oppenheim è tutta qui, nel suo calcare la realtà di un peso inaspettato, con un’ironia minuettistica delle più sferzanti (in un dramma teatrale recitò la parte del Sipario; a un carnevale si presentò con una maschera di bistecche sanguinolente). Una sfida all’abitudine. Davanti a una sua opera, si passa dalla sorpresa più divertita al fondo del dubbio. Il tema dominante è spesso la sovversione dell’oggetto d’uso e la sua metamorfosi in qualcosa di vivo, animalesco (“le farfalle erano fra i suoi soggetti preferiti”, ricorda Dominique Bürgi, a cui si deve il catalogo ragionato di tutte le opere dell’artista). Quando, diciottenne, si accoda alle fila dei surrealisti di Parigi, eccola a casa sua, l’oggetto diviene feticcio, acquista potere di seduzione.
Come tutti i surrealisti, Oppenheim combinava il dono della fantasia a un’estrema capacità di sintesi. Prova ne è la sua Colazione in pelliccia (1936, una tazza di porcellana rivestita del vello di una gazzella cinese). Sulla sua origine c’è una vasta letteratura. Fu esposta alla prima Exposition surrealiste d’objet, alla Galerie Charles Ratton di Parigi, nel maggio del ’36. “Passò per caso Alfred H. Barr Jr.”, ricorda Oppenheim in un video datato che introduce la mostra al MASI – la vediamo fumare e gesticolare nella penombra di una stanza, i capelli cortissimi, davanti a una candela accesa, alle spalle la meravigliosa scultura in bronzo (pure qui esposta), Sei nuvole su un ponte. “La acquistò per 250 franchi per il MoMA. Il prezzo da me indicato. Ero molto orgogliosa”.
Prima opera di un’artista donna a entrare nella collezione del neonato museo americano, Colazione in pelliccia in questa mostra non c’è – “non viene più concessa in prestito dal MoMA perché troppo fragile”, si legge in una nota. Un’assenza che pesa. Al suo posto, una fotografia di Man Ray (Le déjeuner de Meret Oppenheim, 1936), in cui si vede l’irsuta tazza proiettare la sua ombra sfilacciata su un glabro ripiano e, accanto, il collage Souvenir della Colazione in pelliccia, realizzato con molto spirito dall’artista nel 1970. Uno scherzo da intenditori. Questo incontro calamitoso fra organico e inorganico (un altro esempio in mostra è Scoiattolo [1969], un boccale di birra con una coda di roditore al posto del manico) informa di sé tutta l’opera di Oppenheim.
Meret Elisabeth Oppenheim nasce nell’ottobre del 1913 a Berlino da padre tedesco e madre svizzera. Morirà nel novembre del 1985, a Basilea, lasciando il veto di aprire le sue lettere per i vent’anni successivi. La nonna materna, scrittrice e illustratrice di favole per bambini, ha un ruolo chiave nella sua formazione (la sua casa di villeggiatura, a Carona, in Svizzera, era frequentata da artisti e scrittori, fra cui Hermann Hesse). Il padre, medico, la introduce alla psicanalisi di Carl Gustav Jung. A lui, la sedicenne Meret dona, come regalo di compleanno, un quaderno di matematica (qui esposto con il titolo Il quaderno di scuola), su cui è appuntata l’equazione “X=Hase” (X=coniglio), a riprova della sua precoce inclinazione per le combinazioni sorprendenti.
Alla fine degli anni Venti è a Basilea. Qui frequenta l’accademia e conosce Irène Zurkinden (che nel 1940 la ritrae in un grande dipinto, Ritratto davanti allo specchio, la prima opera che s’incontra in questa mostra). Con lei si trasferisce a Parigi, dove ha luogo laboriosamente, si è insistito nel dire, la sua affermazione come musa dei surrealisti, nelle sue più meno sobrie caratterizzazioni. Nel ’37 torna a Basilea. Nel ’49 si sposa, va a vivere a Berna, entra nella cerchia di Arnold Rüdlinger, allora direttore della Kunsthalle. Per decenni si regge su un precario equilibrio. A richiamarla alla ribalta, è la grande retrospettiva organizzata da Pontus Hultén al Modena Museet di Stoccolma nel 1967. A partire dal 1974, le vengono dedicate importati mostre in Svizzera, Germania e Francia.
Questa esposizione al MASI, a cura di Guido Comis, in collaborazione con Maria Giuseppina Di Monte e in corso fino al 28 maggio, conta di un centinaio di pezzi, raggruppati per temi (cibo, sessualità, corpo, natura, sogno, maschera, ecc.) Come suggerisce il titolo – “Meret Oppenheim. Opere in dialogo da Max Ernst a Mona Hatoum” – procede per forza di accostamenti, debiti e crediti, affinità. Come quella con Ernst, al quale strinse la mano a lungo: per sancire la fine della loro relazione, lei gli dona un olio (Presto-presto la vocale più bella si svuota, 1934, con dedica in calce: “M.E. par M.O.”), a cui lui risponderà pure con un dipinto (e dedica: “Auf Wiedersehen Meretli”, “addio piccola Meret”), esposti, a fine mostra, nella sezione “autoritratti, amici, ritratti”.
Fra questi c’è Alberto Giacometti, altra figura fondamentale, sul cui padiglione auricolare, nei primi mesi del 1933, Oppenheim modella l’opera in cera L’orecchio di Giacometti (la fusione in bronzo in mostra è del 1959), con fiori al posto di elice e antelice. E Marcel Duchamp, qui nelle vesti femminili di Rrose Sélavy, a cui fa da pariglia una foto di Man Ray che ritrae Oppenheim nei panni di un uomo che legge il giornale – i tre esplorarono ampiamente i territori della sessualità ibrida e dell’androginia psichica (à la Jung). Come si vede nelle splendide fotografie della serie Erotique Voilée (Man Ray, 1933), in cui la giovane e disinibita musa dei surrealisti posa nuda, imbrattata d’inchiostro, accanto a un torchio, con un’ambigua distribuzione delle parti maschili e femminili.
In Oppenheim, la Donna – la Regina – si denuda, si concede sempre, anche quando si maschera. È décolleté a tal punto da liberarsi della propria pelle (pur tenendosi stretta anelli e orecchini) nell’emblematica Radiografia del cranio di M.O. (1964), divenuta efficacissima réclame di questa mostra. O della propria carne, come nel Banchetto di primavera (Le festin) (Berna, 15 aprile 1959: un’opulenta colazione imbandita sopra il corpo di una giovane donna per il piacere di sei invitati, di cui oggi rimane solo una foto fuori fuoco). Pur tuttavia – e così è l’opera tutta di Meret Oppenheim, di cui in molti si sono cibati – fissa un suo particolare traguardo d’ambiguità e reticenza, spingendolo oltre le facili etichette: si offre al desiderio, mai al consumo; resta immasticabile.
© riproduzione riservata
fino al 28 maggio 2017
Meret Oppenheim. Opere in dialogo da Max Ernst a Mona Hatoum
a cura di Guido Comis
MASILugano – Museo d’arte della Svizzera italiana
Piazza Bernardino Luini 6, Lugano