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Laure Prouvost
Le opere di Prouvost all’HangarBicocca sono difficili da districare, come succede con i capelli increspati, hanno a che fare con i temi della comunicazione e, al rovescio, dell’incomunicabilità.
Mio nonno m’intimava di mordermela ogni volta che parlavo a sproposito, o di mostrargliela quando voleva informarsi sullo stato della mia funzione digestiva. Organo del gusto, la lingua è un muscolo mobilissimo (membro indisciplinato lo definiva Edgar Lee Masters) su cui sono depositati tutti i sapori. Pure, per lingua s’intende ciò che ne fa “un sistema di comunicazione, parlato o segnato, proprio di una comunità umana”. Ed è proprio fra queste due sponde – organica e linguistica – che scorre, ma sarebbe più appropriato dire scroscia, la personale di Laure Prouvost al Pirelli HangarBicocca di Milano (in corso fino al 9 aprile 2017, a cura di Roberta Tenconi).
Bene, all’ingresso, sotto l’insegna “The entrance for all the visitors”, un’enorme lingua di gomma spiegata a terra (con sopra impresse molte impronte di scarpe di tutti i numeri) dà subito il senso dell’umore e dell’umano. È per questa via che, attraverso un’orofaringe-uccelliera, dove al posto dell’ugola pendono due grandi tette, si accede alla mostra, una specie di buia cavità orale, che arriva a noi tutta insieme, confusa. Non la confusione del disordine, ma il bordello di una babele. Non il mercato, ma il pandemonio: un fracasso di schermi e monitor, scoppi e botti e risa registrate, specchi deformi e infranti, organi anatomici, mobilia da boudoir. Molta roba, insomma.
L’opera di Laure Prouvost (nata a Lille, Francia, nel 1978) a stento si può costringere nel giro di poche battute, seppure lunghe. Certamente ha a che fare con i temi della comunicazione (di cui assume i caratteri di sistema più coreografici, mutuati da video clip, serie TV, piattaforme web, ecc.); e, al rovescio, dell’incomunicabilità (a cui conduce per via di errori di traduzione, diacronie, fraintendimenti culturali, ecc.); del vero e del falso. Pure, vi si ritrova, forte, l’eco di certe teorie femministe e del cinema strutturalista anni Settanta, di cui vengono pizzicati il montaggio serpentino, l’impegolarsi della narrazione, le dinamiche di identificazione fra chi sta al di qua e al di là dello schermo.
Il suo è uno spettacolo a doppio, triplo, quadruplo fondo, che vale nel suo insieme d’installazione + video, seppure quest’ultimo sostenga gli sforzi maggiori dell’artista. Un risultato di confezione, dove a tenere il campo sono la dissonanza, la sinestesia, la ridondanza (quante volte gli stessi argomenti, le stesse allusioni, le stesse immagini: i seni, ad esempio, appaiono qui come voluttuose poppe oversize, lì come indurite mammelle poggiatesta, là come coppe spruzza-latte). C’è il femminismo, sì, ma anche molta femminilità. E una buona dose di rêverie. E non manca certo lo sfogo del canto, che a volte si fa grido barocco. Infanzia e libidine, forse più la prima che la seconda.
Mio nonno aggiustava le cose, parlava in dialetto. Quello di Prouvost era uno scultore concettuale, amico dell’artista d’avanguardia Kurt Schwitters. O, almeno, così si favoleggia in questa mostra, intitolata “GDM–Grand Dad’s Visitor Center”, una specie di museo-memoriale dove è l’illustre progenitore, con la sua anticipata tragedia artistica (un giorno scompare nel tunnel che segretamente stava scavando per unire l’Africa al suo studio), a funzionare da ritratto di antenato. Qui nessun ordine formale è imbrigliato a doppio nodo alle leggi della visione, e lo si capisce subito dall’immagine scelta per la réclame della mostra: una mano che tiene sul palmo due biglie-bulbi oculari.
Le opere esposte sono una quindicina, difficili da districare, come succede con i capelli increspati. La più divertente è senza dubbio la mise-en-scène di un fantomatico negozio di acconciature femminili (l’installazione, del 2013, intitolata God First Hairdresser / Gossip Sequence, è parte del più vasto progetto The Wanderer, tutto basato sulla improbabile traduzione fatta dall’artista scozzese Rory MacBeth delle Metamorfosi di Kafka), dove capita di assistere al classico battibecco tra una madre e un figlio su come si fanno le trecce, e tra bigodini, arricciacapelli e un ritratto di Gesù con gli occhi volti al cielo, viene voglia di arrovesciare la testa anche noi, e desiderare una messa in piega.
Nei video di Prouvost le immagini si susseguono a mitraglia, precipitano, si accavallano. A tableau segue tableau, con moto implacabile.Vi si ritrovano situazioni familiari: una platea che applaude (Gran dad where are you, 2014), qualcuno che ti parla vis-à-vis, un caminetto acceso, un libro di ricette (Monolog, 2009). Meno familiare, e anzi oltre misura irritante, è invece la forbice del montaggio, che spinge ai giri più impensati, così come il flautato tono adescante, un po’ bambinesco un po’ lascivo – a volte ansima, a volte desidera, a volte ordina – della voce narrante fuori campo, che è sempre quella dell’artista e usa rivolgersi direttamente a chi sta guardando, spesso in modo categorico.
Nel video How to Make Money Religiously (2014) fiottano monete fra funzioni religiose e gente che saluta. “This film will make you richer”, ci informano, e poi ci viene comandato: “Take off your clothes now”, mentre il motivetto de L’italiano del cantante Toto Cutugno aggiunge immagini a immagini: “Gli spaghetti al dente, un partigiano come presidente, l’autoradio nella mano destra, un canarino sopra la finestra”. “Lasciatemi cantare!”, implora Cutugno, ed ecco, voltate le spalle, materializzarsi, nell’installazione Karaoke (2014), un microfono ad asta – un invito a esercitare l’ugola – e un monitor sopra cui scorrono le parole del tormentone new wave anni 80 Sweet Dreams degli Eurythmics.
Questo lavoro è dedicato alla nonna dell’artista, fan del duo synth pop britannico, come pure lo è Grandma’s Dream (2013), una stanza tutta rosa come la luce delle apoteosi, attraversata da nuvole, aeroplani-teiera, uova all’occhio di bue. A muovere il racconto dell’ava è sempre la stessa musica: il consorte contumace che si vorrebbe a casa – il classico motivo dell’assente (sempre uomo) che regola la vita dei rimasti con il peso del suo ricordo. (Viaggio onirico nel subconscio del nonno è pure Into All That Is Here, 2015, mentre in I Need to Take Care of My Conceptual Grandad, 2010, ad assumere questo ruolo è l’artista bibliocasta britannico John Latham, di cui Prouvost è stata assistente).
Ma a dare il sale alla farsa del nonno disperso è Wantee (il titolo è un gioco di parole: “Would you like some tea?”), installazione che è valsa all’artista il premio britannico Turner Prize. Qui il pubblico è invitato a prendere il tè in uno straniante soggiorno, ma lo scambio tanto ambito (almeno così ci viene detto) tra platea e palcoscenico, nelle opere di Prouvost è come sempre depistato da scene troppo nutrite, o uno studio di battute, che scardina gli abituali meccanismi narrativi, da una parte, e di ricezione dall’altra. E pare essere questo un modo che l’artista ha di accostarsi/discostarsi da certe logiche patriarcali e machiste predominanti e proprie, anche, del sistema dell’arte.
Le opere di Prouvost non ci lusingano come spettatori. Sfoltite di ogni appunto di regia, spiegano il loro gioco di fondo attraverso aneddoti assurdi, scossoni, comandi, indici puntati, affermazioni che a volte hanno il sapore di un raggiro. Nel video The Artist (2010), ad esempio, è tutto un: “Take a sit”, “Look at this way”, ecc. Nel nero budello di Magic Elettronica (2014, l’opera in assoluto più apprezzata, stando a un piccolo sondaggio che ho fatto il giorno dell’inaugurazione), lo schioccare delle dita e una voce registrata impongono di seguire i guizzi di una luce strobo che ti fa roteare gli occhi vorticosamente tutt’attorno, su e giù, per poi abbandonarti nel buio più pesto.
Wantee non si regge su imperativi, ma su una domanda: “Vuoi un po’ di tè?”, che diviene coattiva nel momento in cui viene formulata da un bambino (come dire di no a un bambino?) “Sì, grazie”. “Devi versartelo tu”, fa però quello, “io sono troppo piccolo e la teiera scotta”. Obbedisci, e mentre ingolli il tè, ti accorgi che è stato corretto col gin. “Ci vuoi del latte?”, insiste la creatura. Emetti un flebile sì, e inizi a mescere i due fluidi, certo che sarà come bere sapone liquido. “Un po’ di patatine?” Ormai sei asservito, annuisci soltanto. L’opera di Prouvost non parla chiaro e retto. Tutto è sobillato, mai risolto; e può capitare che ti lasci come in uno stato ipnotico, e con la lingua un po’ rattrappita.