I risultati più evidenti sono la maggiore circolazione di denaro e basterebbe il lavoro degli artisti più giovani e meno conosciuti come Xu Qu con Currency wars per semplificarne gli aspetti, visto che i particolari iconici di banconote di tutto il mondo fluttuano nella loro rigorosa astrazione e sono metafore elementari del punto 0 del potere d’acquisto raggiunto dai collezionisti cinesi, ora che si aggiudicano capolavori dell’arte occidentale sul mercato con cifre da capogiro.
C’è anche il contrapporsi di due fastidiose e irrisolte questioni: quella tra la giovanissima arte in crescita esponenziale e la vecchia scuola di dissidenti e fuoriusciti. Una nuova promozione di artisti che evolvono nelle scuole d’arte occidentali e a contatto con agende che li fanno un po’ tutti assomigliare vuoi nell’uso dei nuovi media, vuoi nello scimmiottamento di problematiche tutte interne alle tautologie del post moderno. Persino il rigore di un’artista come Cao Fei, sembra stemperarsi in un lavoro, Stranger, che capovolge una solida reputazione costruita su lavori digitali e video come Live in RMB city di più ampio respiro.
La selezione di artisti internazionalmente identificabili come Ai Weiwei o Yang Fudong sebbene di generazioni e ambiti diversi non avrebbero sicuramente potuto equivalersi, se non in un progetto come quello sotteso alla mostra.
Ai Wei Wei il dissidente assoluto è anche alle prese, in città, con le leziose vetrine del Bon Marché costruite in leggerissimo bambù e carta di riso, ma qui per lo stesso gruppo (LVMH) è un solidissimo albero assemblato con i materiali di recupero che lo hanno reso famoso. Yang Fudong geniale regista della sino-estetica Prada vista nei video della collezione primavera estate di qualche anno fa, presenta due lavori ipnotici, veri e propri camei per tecnica e respiro che purtroppo sono risucchiati nella logica fior di loto dell’esposizione incentrata sulle apparenze folkloriche dell’Impero di mezzo.
Solo vent’anni orsono, la realtà della politica e le trasformazioni di quel continente non avrebbero generato la melliflua idea allineata in queste sale.
Il caso più eclatante è Huang Yong Ping, che sarà il protagonista della prossima edizione di Monumenta al Grand Palais. Il suo scolabottiglie di Duchamp con le cinquanta braccia di Buddha è certo immediatamente intellegibile al grande pubblico ma fa rimpiangere le sue lavatrici con i bucati di giornali quotidiani o di manuali di storia dell’arte occidentale. Ora come si trattasse della riscrittura della grammatica per una grande cultura visiva millenaria non si può esattamente riassumere la ricerca piena di nuove energie appiattendola nella relazione faticosa con la terra natale.
Certo molti artisti della prima generazione hanno abbandonato il Paese. Huang Yong Ping è naturalizzato francese e il Bentu (parola cinese che significa madrepàtria) a cui la mostra fa riferimento, si muove in un universo di diversa circolazione di uomini e capitali.
Certo ci sono lavori che non apparendo centrali nella mostra sono imprescindibili come le splendide operazioni di Zhou Tao. Nei suoi due video, One Two Three Four, 2008 e Chick speaks to duck, pig speaks to dog, 2005 la realtà della Cina odierna è vivisezionata in un approccio antropologico che non lascia dubbi sul futuro di quell’area geografica.
Le unita di lavoro delle nuove società commerciali e dei nuovi colossi economici intenti nell’esercizio mattutino di parata ricordano non poco le “unità di lavoro” maoiste nelle quali la popolazione cinese era inquadrata fino ad anni recenti. E anche per i disperati tentativi di comunicazione nella notte di tre uomini in un parco cinese che se ne stanno appollaiati sugli alberi andrebbe probabilmente pensata una collocazione diversa. Vicino al totemico albero di Ai Weiwei avremmo ottenuto un insperato effetto di realtà.