Camille Henrot descrive il suo ultimo lavoro The Pale Fox (La volpe pallida), in mostra alla Chisenhale Gallery di Londra fino al tredici di aprile, come corrispettivo tridimensionale del video Grosse Fatigue, opera esposta alla scorsa Biennale di Venezia, dove l’artista francese ha vinto il prestigioso Leone d’Argento.
The Pale Fox
Alla Chisenhale Gallery di Londra, Camille Henrot mette in mostra The pale fox, corrispettivo tridimensionale del video Grosse Fatigue con cui aveva vinto il Leone d'Argento alla scorsa Biennale d'Arte di Venezia.
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- Luisa Lorenza Corna
- 02 aprile 2014
- Londra
Per chi si fosse perso la Biennale e i suoi premi, Grosse Fatigue è un breve video di tredici minuti realizzato da Henrot nel corso della sua residenza presso il museo più grande del mondo, lo Smithsonian Institution di Washington. È interessante notare come l’estensione – o meglio la capienza – del luogo in cui la ricerca di Henrot prende le mosse, ne condizioni visibilmente sviluppi ed esiti. Tanto in Grosse Fatigue quanto nel più recente The Pale Fox, Henrot sembra infatti replicare l’ambizione del museo americano di contenere “tutto”.
Grosse Fatigue ritrae uno schermo di un computer in cui fotografie di oggetti della collezione dello Smithsonian Institution si alternano e sovrappongono ritmicamente a pagine di wikipedia, video ed immagini. Ogni immagine che appare sullo schermo si unisce a quella di sfondo e viene rapidamente coperta (anche se solo in parte) da nuove finestre, formando così continui collage virtuali. Ciò che potrebbe sembrare una casuale giustapposizione e successione di documenti visivi, sottende tuttavia un progetto ambizioso, quello di spiegare l’origine incerta dell’universo.
Se in Grosse Fatigue tale finalità narrativa rimane velata, nell’installazione The Pale Fox risulta più facilmente percepibile un ordine progressivo che rimanda a un’idea di evoluzione. The Pale Fox si estende lungo tutte le quattro pareti della Chisenhale gallery, rispettivamente “nord”, “ovest”, “est” e “muro sud”, ognuna delle quali rappresenta uno stadio diverso dello sviluppo dell’umanità. Un ripiano di alluminio – che si increspa e si spezza, quasi a suggerire il procedere a singhiozzi della storia – supporta e interagisce con gli oggetti che compongono l’installazione.
Tutto comincia con il “muro ovest”, dedicato al principio dell’essere, dove Henrot colloca un grande disegno a china che rappresenta il gesto iniziale, che darà vita a tutto il resto. Si prosegue verso nord con una raccolta di oggetti e immagini che indicano il dischiudersi verso il mondo, ciò che l’artista definisce “la ragione del divenire”. Tra questi troviamo il Gabagunnu, una scatola di cartone contenente delle zucche a fiasco, frutto che secondo la mitologia racchiude tutto l’universo, e che ironicamente rimanda al logo del software dropbox, destinato alla raccolta e allo scambio di dati. Tale allusione al mondo virtuale anticipa l’ultima tappa del percorso destinata alla riproduzione tecnologica. Ma prima di giungere all’Ipad, a wikipedia ed ebay, Henrot ci costringe a prendere coscienza del limite dello sviluppo, attraverso una raccolta di immagini che documentano l’inquinamento delle risorse naturali e il loro possibile esaurimento. Penultima e ultima parete vanno lette non tanto in progressione, quanto sincronicamente, l’una come faccia nascosta dell’altra.
L’artista definisce la parte conclusiva, quella che ospita i dispositivi tecnologici, come spazio della shameless, dell’assenza del senso di colpa. Ma esso è anche, paradossalmente, lo spazio della noia, dove riemerge la necessità di dare un senso al mondo e di interrogarsi sulle sue origini, tornando così, circolarmente, al punto di inizio della mostra. Così, poco distante dai packaging di prodotti Apple, tutti bianchi e leggeri come una piuma, troviamo una ingombrante e polverosa enciclopedia. È come se al termine della mostra, l’informazione che abbiamo costretto a perdere di peso, tornasse, improvvisamente, a reclamare il suo spazio.