Versatile, solitaria, di talento. Nata nel 1978. Da alcuni anni, Camille Henrot s’interroga sul moltiplicarsi dell’illusione del potere nello sguardo e sul reale governo dell’occhio sul mondo. L’ha fatto, fino a oggi, dalla posizione che il mondo dell’arte in Francia riserva alle sue artiste non militanti: in assoluto, la più scomoda.
Non si perdona nulla in terra transalpina (e in generale forse in gran parte dell’Europa “latina”) alle artiste donna. Si sorride – spesso con una certa sufficienza – di fronte ai progetti che, se fossero firmati da artisti uomini, farebbero gridare al miracolo. Nell’eventualità poi in cui le artiste siano state finalmente riconosciute (spesso da curatori stranieri d’altri emisferi o del Nord Europa), si comincia a dire che il loro lavoro sta già diventando più debole e che non sono più quelle degli inizi. Per fortuna, ci sono artiste che continuano il loro lavoro, non si lasciano mettere ai margini, utilizzano – semmai – le sponde dove sono confinate per concedersi ogni libertà nell’esplorare i campi che più interessano loro e che spesso sono i più attuali, nonostante siano i meno battuti. Viaggiano, lavorando sovente all’estero. Leggono. Incontrano nei gusti la gente comune. Studiano tranquille. Rarissimamente polemizzano.
Infiniti altri progetti, coraggiosamente assai diversi l’uno dall’altro, sono sorti negli ultimi anni, in sprezzo dell’ostacolo costante nei confronti del mercato. Sculture, film, installazioni, disegni e persino intenzioni pittoriche per l’avvenire e, da poco, anche Ikebana che costituirono la sorpresa della scorsa Triennale al Palais de Tokyo. Li tralasceremo tutti in quest’occasione critica, ma di ognuno è rimasta una traccia nel film “enciclopedico”, Grosse fatigue (Grande fatica), vincitore del Leone d’argento quest’anno alla Biennale di Venezia.
È un curioso canto di fondazione e di creazione, ma anche e soprattutto di morte e scomparsa per il quale è stata accompagnata dalla complicità del DJ e compositore francese – nonché suo compagno – Joaquim dell’etichetta Tigersushi, e dal poeta Jakob Bomberg, autore con lei del testo messo in musica, strano coacervo di miti e riflessioni sullo stato del mondo.
Il film Grosse Fatigue è una meditazione sulla creazione. Chissà se piacerà agli appassionati di rap, non abituati a forme di clip così insoliti. Tredici minuti per raccontarci la nascita del mondo e il rischio della sua fine. A cosa porta il nostro desiderio di farci immagine del mondo? A questo problema, eminentemente filosofico, Henrot risponde sovrapponendo e intersecando diverse pagine di computer sullo schermo. Inventando, tra l’altro, un modo nuovo di guardare cosa accade quando sul desktop si naviga su diverse strade.
Non gioca dunque la carta godardiana della fusione emotiva, ma quella della catalogazione e della separazione, del taglio. Henrot è influenzata, in quest’occasione, tanto da Matisse e dai suoi Papiers découpés che dalla danza Coupé-Décalé, dalla lettura dei miti, e dall’ossessione compulsiva dell’essere umano di catalogare il mondo. Starobinski e il suo esame lucido e drammatico dell’enciclopedia non è poi così lontano dall’universo di Henrot, con lo smembrarsi dionisiaco, l’andare in pezzi attraverso la scoperta del mondo, l’interruzione e la cesura che diventa anche quella orgasmica, qui masturbatoria, dell’eros di chi guarda e si specchia nel mondo.
Di cosa siamo la collezione e perché a nostra volta collezioniamo? Che cosa si accumula e quanto vive di quel che accumuliamo? Spaccati di mondo si succedono in ognuno di noi. Ma cosa accade al nostro vivere quando, finestra su finestra, si esplora e si disvela: istanti di gioia, festa, colori, ma anche fatica e morte. Meravigliosi e sinistri animali imbalsamati sono filmati con amore e disperazione al Museo di storia naturale parigino e allo Smithsonian Institute dove Camille Henrot è stata a lungo in residenza.
Camille continuerà a piacere troppo e a fare discutere. Buon segno. Federico Nicolao