Se il Movimento Moderno fa pensare alla casa come “machine à habiter” (prodotto standardizzato e riproducibile a qualsiasi latitudine) e a volumi irradiati di luce che fluttuano su strutture puntiformi, il collegamento tra architettura modernista e le costruzioni spontanee e materiche del Mediterraneo assume i contorni di un ossimoro. Una dicotomia che sembra ancora più accentuata in un contesto appartato come quello isolano, dove le infiltrazioni di “novità” dalla terraferma sono spesso viste con sospetto e dove, per ragioni geografiche, le risorse e gli approvvigionamenti sono locali.
Tuttavia, che il vernacolo mediterraneo sia stato fonte di ispirazione per il linguaggio architettonico moderno lo dimostra la Storia dell’Architettura. Fu Karl Friedrich Schinkel, a inizio ‘800, tra i primi ad apprezzarne e decodificarne i caratteri, seguito un secolo dopo da Joseph Hoffmann e Adolf Loos che, sulle orme del Grand Tour, “traghettano” il pensiero architettonico nell’Età Moderna rileggendo la tradizione mediterranea attraverso la semplificazione delle forme, i contrasti chiaroscurali, l’uso del bianco e il rifiuto di qualsiasi ornamento (per Loos assimilabile a “delitto”).
Successivamente, è nel corso del suo “Viaggio in Oriente” tra Istanbul, Atene e l’Italia del 1911 che Le Corbusier matura i principi fondativi della propria architettura, ispirati dalle geometrie elementari in bianco puro, dalle coperture piane, dal dialogo “estatico” con la luce delle architetture mediterranee.
Un “viaggio di scoperta” (“non di nuove terre ma di nuovi occhi”, come avrebbe detto Proust) che affascina anche i partecipanti al quarto Congrès Internationaux d’Architecture Moderne del 1933, salpati da Marsiglia sul piroscafo Patris II in direzione Grecia, per una spedizione marittima alla ricerca delle origini del costruire, al termine della quale Pietro Maria Bardi annuncia che “la casa nasce nel Mediterraneo” (“Cronaca di Viaggio”, 1933).
Se comune denominatore tra vernacolo mediterraneo e modernismo è l’esigenza di risolvere bisogni funzionali prima ancora che estetici (urgenza abitativa urbana da un lato; riparo per uomini e animali dalla ferocia del sole e dagli agenti atmosferici in contesto rurale, dall’altro; controllo dei costi ed efficienza, in entrambi i casi), le declinazioni moderniste intorno al Mare Nostrum, destinate ad essere teatro di stagioni vacanziere, vivono però di regole proprie rispetto all’Avanguardia diffusa altrove. Quand’anche il rigore dell’impianto plani-volumetrico tradisca un’impronta razionalista, le paradigmatiche costruzioni in vetro e acciaio, le strutture puntiformi e le tecnologie leggere del Movimento Moderno sono sostituite da soluzioni plastico-murarie portanti, realizzate con materiali naturali massivi e opachi reperiti localmente; le aperture che introiettano disinvoltamente la luce delle latitudini più nordiche lasciano il campo a finestre calibrate per controllare l’apporto solare; l’accostamento, la giustapposizione e lo sfalsamento dei volumi deriva dalla conformazione orografica del sito piuttosto che da un processo compositivo a tavolino.
Il risultato è un’architettura che, seppure esente da indugi mimetici come nella migliore tradizione modernista, riesce a fondersi con apparente naturalezza nel paesaggio in cui si situa, indipendentemente dal lessico adottato: dalle geometrie nette che si stagliano vividamente nella macchia (Libera, Ricci, Ponti, Boeri, Bini, Ponis), a quelle che sfumano nel contesto come abitazioni a-temporali, da sempre appartenute a quel luogo (Marco Zanuso, Tusquets Blanca, Vietti, Couëlle).
Immagine di apertura: Villa Malaparte, foto romanple da Adobestock