Incontriamo Sebastian Behmann a Merano, in occasione della retrospettiva che la Kunst Meran Merano Arte dedica sino al 17 gennaio 2021 a Studio Other Spaces – SOS: l’architetto tedesco, co-fondatore insieme all'artista islandese-danese Olafur Eliasson di questo nuovo sodalizio progettuale, ne parla in esclusiva per Domus.
Quando e come è nata l’idea di SOS?
Lo studio è stato aperto nel 2014 e rappresenta lo sviluppo di una collaborazione con Olafur Eliasson che dura da oltre vent’anni e che ci ha portato a realizzare installazioni, esposizioni e altri progetti creativi (Sebastian Behmann è tuttora direttore del dipartimento design dello Studio Olafur Eliasson – SOE, ndr). Tuttavia, questo nuovo sodalizio è nato per realizzare in modo più sistematico quella prospettiva di sovrapporre arte e architettura, che già stavamo esplorando. L’idea è quella di adottare un approccio sperimentale in grado di scandagliare i confini fra queste due discipline. E le assicuro che è davvero stimolante poter condividere prospettive e visioni diverse dalle tue.
È uno stimolo in termini di creatività?
Sì, certo: un artista può ispirare un architetto, e viceversa. E io posso confermarlo: nel mio lavoro come architetto ho sempre tratto ispirazione dalla visione artistica di Olafur, visione che mi ha portato a un diverso modo di concepire l’architettura, per esempio, rispetto all’uso dei materiali, della luce... Insomma, si tratta di pensare fuori dagli schemi: unire la sfera dell’arte a quella dell'architettura può contribuire a risultati davvero interessanti. Abbiamo pensato che sia un campo sino ad ora non sufficientemente esplorato.
Vuole spiegarci come si realizza, in concreto, questo incontro?
Innanzi tutto cambia l’approccio. Per noi è importante che a livello progettuale arte e architettura si sviluppino in parallelo, dialoghino senza gerarchie. Ed è importante coinvolgere anche il committente, che non è più chiamato a dare semplice direttive o istruzioni di progetto (banalizzando: quanti metri quadri, quanti piani, quante stanze...) ma a partecipare attivamente all’intero iter del progetto.
Immagino non sia un caso che la mostra dedicata all'attività di SOS, attualmente in corso alla Kunst di Merano, sia intitolata ‘Design of Collaboration’?
Certo. Questa retrospettiva, che è la prima al mondo, è per noi l’occasione per proporre uno spaccato dei nostri metodi di lavoro, mostrare l’iter collaborativo che sta dietro a ogni nostro progetto. L'idea è far capire che le cose non succedono per caso, ma sono il frutto di una serie di decisioni prese da tutti i soggetti coinvolti – dai progettisti al committente, dai cittadini alle municipalità – durante il percorso progettuale.
Dove svolgete la vostra attività?
A Berlino: la scelta è stata quella di condividere la stessa location dello Studio Olafur Eliasson (SOE), che occupa gli spazi di un ex birrificio. I due team, lavorano in modo del tutto indipendente ma, oltre all’edificio che li ospita, condividono idee, impulsi, analisi e, naturalmente, tutte le infrastrutture.
Ma lei come decide se lavora per SOS o per lo studio di Olafur Eliasson ?
Semplice: dipende dal tipo di lavoro. SOS è chiamato in causa quando la competenza in campo architettonico è prioritaria, che si tratti di un progetto urbano o di un edificio. Quando invece il progetto nassce come operazione artistica, è lo studio di Olafur a prenderlo in carico. Ma la condivisone fra i due studi è comunque parte integrante del nostro modo di lavorare.
Il suo partner, l’artista Olafur Eliasson, è da sempre sensibile alle tematiche del ‘climate change’. Ne sono testimonianza le numerose installazioni e performance realizzate un po’ in tutto il mondo, che hanno sempre avuto un forte impatto sull’opinione pubblica. La sostenibilità è anche il campo di ricerca di SOS?
Certo, è assolutamente prioritario. Siamo convinti che sia giunto il momento di cambiare radicalmente il nostro modo di costruire. Nella nostra pratica ci siamo sempre interrogati sulle modalità costruttive dei nostri lavori e, soprattutto, sul tipo di materiali che usiamo, ponendoci delle domande: da dove provengono? come vengono estratti e lavorati? Come sono trasportati? L’integrazione di tutte queste attività in un processo accuratamente pianificato può contribuire alla nascita di edifici più sostenibili, ben armonizzati nel loro contesto territoriale. E per raggiungere questo obiettivo ci spendiamo in prima persona.
In che senso?
Da circa un anno abbiamo creato all’interno di SOS un laboratorio per studiare materiali più ecologici e sostenibili. C’è molto da fare in questa direzione perchè usare materiali alternativi significa anche pensare a edifici differenti rispetto a quelli tradizionali, anche per quanto riguarda la loro fruizione. Ci stiamo avventurando in una nuova era del design e del costruire che mette in discussione tutto ciò che credevamo di sapere e che eravamo abituati a fare.
Ci vuole fare qualche esempio?
Be’ parlando di materiali alternativi, mi viene in mente l’Ulilissat Icefjord Park, in Groenlandia, dove abbiamo usato blocchi di ghiaccio, raccolti nel vicino fiordo, per modellare lo spazio interno dell'edificio espositivo. La forma del ghiaccio, una volta sciolto, rimane impressa nelle pareti: un richiamo per i visitatori al drammatico problema dello scioglimento dei ghiacciai.
Oppure, il progetto della Movement House, in Danimarca, un edificio pensato per ‘coltivare la salute’, stimolando al movimento come atto terapeutico e di relazione.
E il movimento è ancora la fonte d’ispirazione del Meles Zenawi Memorial Park di Addis Abeba, in Etiopia, a cui stiamo lavorando dal 2013 e che dovrebbe completarsi entro quest’anno. Il progetto, dedicato all’impegno dell’ex premier Meles Zenawi contro la povertà, si concretizza in una sorta di passeggiata commemorativa all'interno di un parco, punteggiato da sette ‘stazioni’, che porta a toccare con mano la storia dell’Etiopia, prendendo coscienza dei successi e delle sconfitte degli ultimi cinquant'anni.
Se dovesse descrivere SOS con un aggettivo?
Ne userei tre: curioso, sperimentale e ambizioso.