Per due stagioni Westworld ha raccontato di un gruppo di robot indistinguibili dagli umani, usati in un parco divertimenti a tema Far West come sollazzo per gli umani. Questi robot programmati per fare pistoleri, campagnole, prostitute del bordello o sceriffi sono lì perché i ricchi avventori possano sparargli facilmente o possano possederle senza remore. Almeno fino a che qualcuno di questi non ha cominciato a sviluppare una forma di coscienza di sé, arrivando a capire tutto, cioè che la loro vita è solo una simulazione e che non sono “veri”. La scoperta li ha fatti arrabbiare un bel po’ e li ha portati a decidere di ribellarsi contro i propri creatori.
All’apertura della terza stagione, solo tre settimane fa su HBO (in Italia va in onda su Sky), Westworld ha però deciso di cambiare completamente, cioè di passare dallo scenario western in cui robot e umani interagiscono, al mondo esterno del futuro (2058 per la precisione) in cui i robot ribelli sono fuggiti con un piano per soppiantare gli umani.
E tutta quella perizia estrema con cui la serie aveva raccontato la genesi dell’autocoscienza, attingendo a teorie reali, come quella della mente bicamerale, adesso la applica alla creazione dell’America del 2058. Una volta tanto invece di creare ex novo si è scelto di usare moltissime location vere modificandole solo quanto basta (un indizio lo avevamo avuto un anno fa nelle ultime immagini della seconda stagione che si chiude con la Millard House di Frank Lloyd Wright). Il mondo del futuro stavolta è raccontato tramite l’architettura moderna.
C’è La Fábrica, il progetto di Ricardo Bofill la cui costruzione non è mai stata terminata, che serve come gigantesca residenza per uno degli uomini più importanti del mondo (padrone della tecnologia che interessa ai robot), c’è La Città Della Scienza di Valencia di Santiago Calatrava usata come sede per la compagnia che gestisce i parchi e che ha creato i robot in questione. Ma già solo la sequenza che apre il primo episodio è tutta ambientata nella Crescent House di Wallace Cunningham. Quel design fatto di vetri e forme tonde ma soprattutto di integrazione tra costruito e elementi (acqua e verde su tutti) che si ritroverà in tutte le altre location reali usate nella serie, ci introduce al tono e al look che verranno: un mondo che sembra aver sposato le idee di Boeri, Barreca e La Varra e del loro Bosco Verticale, e in generale di tutte quelle sperimentazioni per una integrazione pacifica della natura nella città.
C’è infatti moltissima vegetazione inserita nelle corti interne di grattacieli e strutture progettate come se fossero state gentilmente conquistate dalle piante, una conquista in armonia con il progetto. Consulente della serie per l’architettura è stato Bjarke Ingels, il quale ha preso il design che più identifica i nostri anni (forme lisce, trasparenti e una generale leggerezza da less is more) per ibridarlo con i giardini zen e moltiplicarlo. Non più una scelta di archistar ma la regola ovunque. Di location in location la terza stagione di Westworld crea un’impossibile città unendo le parti più moderne delle nostre città. Anzi di una città in particolare.
Ingels infatti ha suggerito che l’ispirazione principale fosse Singapore (come già era capitato in Lei di Spike Jonze), lì la produzione è andata a trovare molte location come ad esempio l’hotel Park Royal con i suoi piani di verde, o anche le forme morbide del Lasalle College Of Arts o del centro commerciale di Orchard Road, fino all’Helix Bridge, in cui i personaggi camminano sempre nel primo episodio.
Tutto deve essere ideale perché nel mondo di Westworld una gigantesca intelligenza artificiale regola tutto e ottimizza la vita di tutti. Dunque non ci devono essere problemi, gli spazi devono essere ampi e per tutti, devono essere civili, vivibili al massimo e anche belli.
Cosa che si riscontra anche negli interni. La scenografia infatti punta moltissimo sull’uso di pannelli al LED sulle pareti sia come decorazione che come fonti di luce. È proprio un sistema di illuminazione disegnato ex novo che viene utilizzato anche come arredamento per raccontare il futuro e dargli personalità. Sono tutte fonti di luce dalla forma lineare (più che altro commissionate a Damon Liebowitz o Y Lighting e A&R Lighting) che ricorrono spesso anche in altre scenografie di fantascienza ma che qui hanno un’insolita armonia e un’insolita capacità di mettere sullo schermo un arredamento al tempo stesso avanti e riconoscibile. È esattamente quel che siamo abituati a vedere nelle sperimentazioni più audaci, reso popolare e moltiplicati in tutte le stanze, come fosse la regola.
Ma non è solo l’idea di usare edifici reali o progetti o ancora idee reali quel che rende il mondo futuro di Westworld diverso da tutti gli altri mondi futuri, quanto una precisa idea di gestione dello spazio urbano e di tecnologia. Tutti sembrano avere un auricolare con cui comunicano con i loro device portatili (sembrano smartphone ma non è difficile immaginare che siano molto di più), ci sono abiti che cambiano al volo, senza doversi andare a spogliare e rivestire, ci sono app in crowdsourcing per tutto, anche per il crimine.
Essendo quella del film una distopia mascherata da scenario idilliaco (di quando in quando fanno capolino segnali di un regime autoritario mascherato, di libertà che la polizia si prende tramite la tecnologia) non ci sono ingorghi, cosa per giustificare la quale hanno immaginato tantissime possibilità di mobilità a partire da taxi che si pilotano da soli, fino ai droni che trasportano persone, camminatoi sopraelevati e sharing di motociclette elettriche che si parcheggiano da sole nelle loro stazioni di ricarica (ne usa una la protagonista).
Unico vero segno del passato, cioè della nostra era, sarà un negozio Prada nello sfondo e qualche sparuta automobile vecchio stampo, un’eccezione utile semmai a una fuga subitanea.