A Milano, sul finire del 2024, fervono i lavori per la trasformazione dello scalo ferroviario di Porta Romana, di fronte alla celebratissima Fondazione Prada di Oma – Rem Koolhaas. Fremono, in particolare, le decine di gru dei cantieri del villaggio olimpico di Som– Skidmore Owings & Merrill, che nel 2026 ospiterà gli atleti dei giochi invernali di Milano-Cortina. Finalmente, esisterà qui un nuovo quartiere della città al posto dell’immensa distesa di binari che per molto tempo ha costituito una barriera insormontabile tra il centro e la periferia sud.
Finalmente, dicevamo, perché da almeno mezzo secolo attorno lo scalo di Porta Romana, come e più degli altri scali milanesi, si sono condensate centinaia, migliaia di visioni e proposte progettuali, sempre rimaste sulla carta. Cruccio irrisolvibile di politici e pianificatori, eldorado apparentemente irraggiungibile per architetti in cerca d’incarichi, ossessione al limite del patologico per molti docenti della locale Facoltà di Architettura, lo scalo di Porta Romana è uno degli epicentri della “Milano che non c’è stata”.
Da Napoleone al Novecento, il sogno di un’altra Milano
La Milano che non c’è stata è spesso una Milano megalomane. La prima, potentissima visione irrealizzata per la città moderna è probabilmente quella di Giuseppe Antonio Antolini per Foro Bonaparte, del 1801. A Napoleone, che vuole fare di Milano la capitale della sua Repubblica Italiana, l’architetto bolognese propone l’apertura di una sconfinata piazza circolare, di 600 metri di diametro, centrata sul Castello Sforzesco, da ristrutturare in nobili forme neoclassiche.

Le principali istituzioni della Milano napoleonica avrebbero dovuto disporsi sui confini di questo invaso, delimitato da un canale anulare collegato ai Navigli e da portici continui. Le piante dell’epoca mostrano la dismisura tra l’immenso Foro e gli isolati minuti della città antica, e tra la perfezione geometrica del primo e l’irregolarità dei secondi. Napoleone si orienta rapidamente verso soluzioni più misurate, materializzate nelle sistemazioni urbane e nelle architetture di Luigi Canonica – l’Arena (1806-1807), l’Arco della Pace e la sua piazza ad emiciclo (1807-1838) –, ma la memoria del progetto dell’Antolini sopravvive nell’attuale Foro Bonaparte, che ne riprende l’impostazione ad arco attorno al castello.
Le due autostrade urbane e il quartiere Porta Garibaldi
Un po’ dappertutto in città s’intravedono tracce di tante Milano che non ci sono state. Un esercizio interessante, ad esempio, è rintracciare i frammenti di due grandi sventramenti incompiuti del Novecento, due strade che avrebbero dovuto farsi largo trionfalmente attraverso case e isolati e che invece, per diverse ragioni, sono state accantonate in corso d’opera.

La diabolica “racchetta”, asse di scorrimento veloce che il Piano Regolatore Albertini del 1934 ritaglia nei quartieri popolari a sud del Duomo, esiste davvero tra corso di Porta Vittoria e piazza Missori – è la sequenza delle vie Verzieri-Larga-Albricci – poi si scontra contro i ruderi della chiesa di San Giovanni in Conca e svanisce nella confusione urbanistica di piazza Missori.
Poche le parti visibili dell’autostrada urbana direttissima tra via Pagano e piazzale Lagosta, inclusa nel Piano Regolatore del 1953 e poi rapidamente abbandonata. Derivano dallo stesso Piano Regolatore le vicende complesse di un altro luogo cardine della Milano che non c’è stata: il quartiere di Porta Garibaldi, designato all’epoca come sede del modernissimo Centro Direzionale cittadino.
Tra gli anni ’50 e ’60, si libera spazio arretrando di molte centinaia di metri la stazione di testa delle Varesine, oggi Porta Garibaldi, e si costruiscono alcuni edifici per uffici, torri e grattacieli(ni) – raffinato e ormai sostanzialmente perduto è quello a ponte su via Melchiorre Gioia degli Uffici Tecnici Comunali (1955-1966), di Vittorio Gandolfi, Aldo Putelli, Renato Bazzoni e Luigi Fratino. Poi finiscono i soldi, cambiano le priorità e la città fa i conti con un immenso vuoto in attesa, che resta tale per almeno quattro decenni.
Un esercizio interessante è rintracciare i frammenti di due grandi sventramenti incompiuti del Novecento, due strade che avrebbero dovuto farsi largo trionfalmente attraverso case e isolati e che invece, per diverse ragioni, sono state accantonate in corso d’opera.

Nel frattempo, centinaia di architetti e urbanisti proiettano le loro visioni di futuri possibili per il quartiere. Al solo concorso del 1979, promosso dalla rivista Casabella, partecipano su invito 11 grandi nomi dell’architettura italiana: Gae Aulenti concepisce una sequenza di piazze interconnesse, Vittorio Gregotti un unico vuoto allungato su cui affacciano tutti gli edifici, Vittoriano Viganò una megastruttura che ingloba architettura e spazio pubblico. Nel 1991 entra in scena Pier Luigi Nicolin, con una serie di progetti sempre più prossimi a quello che si materializzerà nella città: già la sua proposta revisionata del 2001 propone di conservare un grande vuoto da adibire a spazio pubblico, sospingendo i volumi costruiti al limite dell’area. Erede un po’ sbiadito di quel vuoto è l’attuale BAM – Biblioteca degli Alberi; discendenti un po’ più vistosi di quei volumi sono i grattacieli più alti di Milano e d’Italia.
La “Milano Verde” che non fu mai
La Milano che non c’è stata, i suoi temi e i suoi luoghi, evolvono spesso in parallelo a quelli della sua gemella che ha visto la luce. Negli anni tra le due guerre, la città si espande e la sua popolazione aumenta rapidamente. S’inserisce in questo contesto il celebre progetto “Milano Verde” del 1938, di un gruppo numeroso che comprende Franco Albini, Ignazio Gardella, Giulio Minoletti e altri.
Si tratta probabilmente della più ambiziosa e compiuta visione di una Milano modernista, una città di edifici in linea rigorosamente orientati secondo l’asse eliotermico, (non) costruita sulle ceneri dei quartieri borghesi dell’ovest. L’altissimo Grattacielo INA (1953-1958), edificio per abitazioni di Piero Bottoni in corso Sempione, è considerato dagli storici dell’architettura come l’erede spirituale della “Milano Verde” che non fu mai.
Qualche decennio più tardi, negli anni ’80, nell’epoca complicata della deindustrializzazione e del ripensamento dei recinti industriali, la riconversione degli stabilimenti Pirelli alla Bicocca è l’oggetto di uno dei più importanti concorsi indetti in Italia in quel decennio. È il 1985 e vince Vittorio Gregotti, ma immaginano una Bicocca possibile anche altri 18 progettisti di fama internazionale. Memorabile, tra tutte queste visioni irrealizzate, è quella del duo torinese di Roberto Gabetti e Aimaro Isola: dalle loro planimetrie riemergono tracciati e tessiture della campagna preesistente all’urbanizzazione del quartiere, riscoperti come elementi ordinatori della sua forma urbana post-moderna.
La chimera Santa Giulia
La storia della Milano che non c'è stata potrebbe continuare ancora a lungo, attraversando epoche, quartieri e scale di costruzione della città: ne emergerebbe una storia alternativa a quella più esplorata, concentrata sulle opere realizzate, sulle trasformazioni avvenute. Le due narrazioni corrono talvolta parallele e altre volte sono sovrapponibili, i loro confini sfumati.

È il caso, ad esempio, di piani urbani la cui attuazione si protrae per decenni, attraverso continue modifiche e ripensamenti, come il quartiere di Santa Giulia, chimera della Milano degli anni ’00 che oggi sembra potersi concretizzare.
È il caso, ancora, di grandi edifici pubblici annunciati alla cittadinanza con rumorosi squilli di trombe, dati pressoché per assodati, e poi arenati nei cassetti del Comune per sempre – chi si ricorda il render dell’attorcigliatissimo Museo d’Arte Contemporanea firmato Daniel Libeskind, di fronte al quale Letizia Moratti sorrideva giuliva durante la campagna elettorale del 2011? – o per troppo tempo – il primo concorso per la BEIC – Biblioteca Europea d’Informazione e Cultura di Porta Vittoria, oggi in cantiere su progetto di Onsitestudio e Baukuh, risale al 2001 e fu vinto dal duo Bolles+ Wilson.
È il caso, infine, di uno dei temi di discussione più cari alla politica e ai cittadini milanesi: le immagini dei Navigli riaperti, in diversi luoghi e con diverse forme, circolano periodicamente sulle riviste di settore e sui media generalisti, suscitano ogni volta grande scalpore, affascinano i più nostalgici e fanno sorridere i più pragmatici, e poi puntualmente risprofondano nell’oblio. Sono visioni di una Milano che non c’è più, di una Milano prossima ad esserci o di una Milano che non ci sarà mai? Chi vivrà, vedrà.
Immagine di apertura: Via Pirelli/Via Fara, Piano regolatore 1953. Courtesy Collezione Riccardo Lo faro

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