Non ci sono cartelloni pubblicitari sulle strade che tagliano la bruna terra vulcanica di Lanzarote. È una assenza che accoglie come una sorpresa il turista nello spazio-tempo sospeso di un’isola dove è primavera tutto l’anno, e i paesaggi marziani incontaminati sono raramente interrotti da un villaggio, una singola abitazione ai piedi di un vulcano, una piccola vigna.
Sorprendente soprattutto per chi è abituato al panorama di altre isole spagnole come Ibiza, dove cartelloni giganteschi con il faccione di David Guetta o di qualche altro suo collega dj accolgono il visitatore appena sbarcato come biglietto da visita di uno scenario cementificatissimo e antropizzato, in cui il turismo di massa ha eroso lo spazio naturale sopraffacendolo.
Chi arriva a Lanzarote noterà invece che le abitazioni nei villaggi sono
rimaste quelle tradizionali, bianche e basse, con le porte dipinte di verde, blu se affacciate verso il mare; che gli insediamenti turistici sono dislocati in alcune zone precise della costa, dove sono schierati in successione edifici anch’essi bianchi, che riflettono il sole in maniera accecante, così uguali l’uno all’altro che si potrebbe quasi pensare siano stati disegnati in serie da una di quelle intelligenze artificiali di cui si parla tanto adesso; particolare curioso; e poi ci sono sculture onnipresenti nelle rotatorie, molte delle quali hanno solidi colori primari e si muovono con giochi sollecitati dal vento che qui è una presenza costante e vitale – gli alisei mitigano il clima e rendono
l’isola abitabile; e infinite spianate di terra vulcanica tra morbidi colli di un color bruno venato di giallo e rosso metallico sotto il cielo azzurrissimo, la scenografia dove si muovono solo nuvole e le carrozzerie monotone delle auto, qualche rarissima carovana di dromedari, che qui tutti chiamano
cammelli.
Mi sono sdraiato e ho meditato sul confronto, così diretta a Lanzarote, tra questi due poteri elementari: la creazione da parte del vulcano, distruzione da parte dell’oceano.
Michelle Houellebecq, Lanzarote
César Manrique e Lanzarote
Tutto questo è il risultato dell’opera di César Manrique, il demiurgo della Lanzarote contemporanea, che ha plasmato l’isola rendendola un luogo unico sul pianeta nel continuo intersecarsi di natura e design, anticipando – proprio negli anni in cui il turismo di massa esplodeva in Europa e in Spagna – concetti chiave di sostenibilità quando “sostenibilità” era un termine che ancora non esisteva.
César Manrique nasce un secolo fa, nel 1919, ad Arrecife, capitale di Lanzarote. La famiglia è originaria della vicina Furteventura. Il padre costruisce una casa a Famara, oggi luogo cult per i surfisti che arrivano sull’isola. Lì César vive una infanzia felice, cinque mesi di vacanza all’anno nella lunga spiaggia su cui si riflettevano i rilievi che la incorniciavano. “Quell’immagine è rimasta impressa nella mia anima come una cosa di straordinaria bellezza che non dimenticherò mai in tutta la mia vita”, avrebbe detto anni più tardi Manrique. Simbolicamente, in quella spiaggia si instaura il patto tra l’uomo e la natura dell’isola.
All’infanzia felice fanno seguito anni irrequieti: la guerra civile con gli artiglieri di Franco, un periodo di cui poi non parlerà più; torna a casa e brucia la divisa. Manrique si iscrive ad architettura a Tenerife, dopo due anni molla il colpo; si diploma maestro d’arte e pittura a Madrid, dove si è trasferito. Dipinge, si innamora, si sposa. Ma quella vita non dura: devastato dalla morte della moglie, nel ’64 accetta il consiglio di un cugino di New York e si trasferisce a casa di un pittore cubano. La sua pittura piace, entra nelle simpatie di Nelson Rockefeller, vive nel Lower East Side, in quegli anni the place to be se sei un artista, un bohemien, uno scrittore. Le sue quotazioni si alzano, espone in mezzo mondo, viaggia. Ma New York dopo pochi anni l’ha stancato. “My last conclusion is that MAN in N.Y. is like a rat”, scrive in una lettera a un amico. A quel punto, superati abbondantemente i quaranta, decide di chiudere il cerchio e un po’ come un personaggio di Lost torna sull’isola, a Lanzarote dove morirà nel ’92, investito in una rotatoria vicino all’abitazione che aveva progettato per se stesso, oggi sede della Fondazione che ne porta il nome. Inutile dire che Manrique, grande ecologista e anticipatore di tantissime cose, le automobili non le amava mica troppo.
Il ritorno sull’isola
In venticinque anni, l’isola diventa la sua tela: un’opera totale, in cui la conservazione della natura originaria del luogo corre in parallelo con la sua trasformazione puntuale attraverso interventi che nascono sempre dalla lettura del paesaggio e con il paesaggio si amalgamano. “Di ritorno da New York, sono arrivato con l’intenzione di trasformare la mia isola natia in uno dei posti più belli del pianeta”, scrive Manrique, che vuole proteggere Lanzarote dall’ondata sfigurante del turismo del boom economico, ma al tempo stesso aprirla al mondo. La sua idea iniziale è creare un villaggio per artisti, ma l’amicizia con José Ramírez Cerdá, suo coetaneo e presidente del Cabildo locale, cambia le prospettive.
L’artista spagnolo incide nuove rotte tra le curve dei vulcani, flirta con il litorale, si inabissa nel fitto reticolo di grotte che corre sotto l’isola. Nasconde un locale contemporaneo, con ristorante, piscina e un incredibile auditorium sotterraneo, nello scrigno dei Jameos del Agua, nella parte settentrionale dell’isola; quando Rita Hayworth lo visita, lo definisce “l’ottava meraviglia del mondo”, e probabilmente ha ragione.
In un’isola spagnola ci si potrebbe aspettare di trovare qualche reliquia (conventi barocchi, fortezze medievali, ecc.) se non ci fossero locali notturni. Purtroppo, tutte queste bellezze furono distrutte tra il 1730 e il 1732 da una successione di terremoti ed eruzioni vulcaniche di inaudita violenza. Quindi, per il turismo culturale, niente da fare.
Michelle Houellebecq, Lanzarote
Architetture sopra i vulcani, sotto i vulcani
Lanzarote è un’isola unica, vulcanica, una biosfera protetta dall’Unesco dove eruzioni vulcaniche e terremoti hanno resettato la presenza umana nel corso dei secoli, creando un paesaggio postumano che ha fatto da tela per campagne di Balenciaga e Jacquemus, da ambientazione di film di Werner Herzog negli anni Settanta o western all’italiana ancora prima, e trasformandosi più recentemente in Ferrix, il pianeta-miniera di Andor, la più bella serie di Star Wars di sempre.
A Timanfaya, sulla cima di un vulcano dormiente che domina le distese di pietra lavica create da una devastante eruzione del Settecento durata sette anni, Manrique ha appoggiato un disco volante di vetro e basalto, creando il ristorante “El Diablo”, dove i camerieri vestono la casacca a strisce che ricorda un po’ quella di Footlocker e che César Manrique ha creato per tutto il personale che lavora nei ristoranti dell’isola da lui creati.
Il diavolo è anche la mascotte delle montagne di fuoco, lo disegna lui stesso nel ’68, oggi è un’icona: Timanfaya diventa parco nazionale a metà degli anni Settanta, l’unico unicamente geologico, e oggi è il quarto più visitato della Spagna.
L’approccio unico di Manrique
Oggi è difficile dire dove finisce Lanzarote e inizia Manrique, e viceversa. Negli anni Settanta ristruttura un fortino della guerra cubana, il Mirador del Rio, crea illusioni ottiche e ambienti abitabili (tra cui una chiesa) nei tunnel sotterranei che si snodano sotto l’isola per chilometri, disegna un giardino di cactus. Continua a dipingere e fa soldi vendendo quadri all’estero. Dialoga con i contadini, li convince a ristrutturare la abitazioni storiche anziché demolirle per costruirne di moderne; preserva, conserva, ripristina. Ai conejeros, gli abitanti di Lanzarote, dedica Fecundidad, la più imponente delle sue sculture disseminate tra svincoli e rotatorie in tutta l’isola: per realizzarla, fa uso di vecchi oggetti, soprattutto cisterne d’acqua di barche a vela dismesse.
Quella di Manrique è la storia di un progettista presente, colto, curioso, pragmatico. In lui, la sensibilità ecologica si irrobustisce nella conoscenza del contesto, l’artista dopo anni ritrova l’architetto proprio dove l’aveva abbandonato, alle Canarie, ma non gli lascia la guida creativa: Manrique realizza interni e architetture che oggi fanno pensare a render parametrici con un approccio da artista, e lo fa partecipando attivamente al cantiere, in continuo dialogo con il suo talentuoso costruttore, Luis Morales.
Disegna l’essenziale e interviene in cantiere di persona, creando strutture dalle linee morbide come quelle delle coste e dei rilievi della sua infanzia. “Anni dopo dichiarò che il modello che aveva ispirato il suo salto dalla rappresentazione dello spazio alla costruzione dello stesso, dalla natura rappresentata alla natura ricostruita secondo criteri estetici, era stato Claude Monet, il pittore che aveva fatto del suo giardino di Giverny una vera e propria opera d’arte”, spiega lo storico dell’arte Fernando Castro Borrego in un saggio apparso in Italia su Doppiozero
Quali buone stelle coprono il cielo di Lanzarote? La vita, questa vita che, ineluttabilmente, petalo dopo petalo, sta defogliando il tempo, sembra, in questi giorni, essersi fermata al ben voluto...
José Saramago, Cuadernos de Lanzarote
La mansion di César Manrique a Lanzarote
Una lingua di roccia lavica si allunga dall’esterno e invade una grande stanza, creando un davanzale in negativo, una escrescenza scura e informe che si impone in un ambiente dove tutto è luce e candore. Surreale, all’inizio pensi che sia un trompe l’oeil: è uno dei dettagli forse più celebri della abitazione che Manrique ha costruito per se stesso a Lanzarote, il Taro di Tahiche. Vuole la leggenda che passando da qui vide un fico spuntare dal terreno lavico e scelse questo posto per costruire una casa perché quella pianta era un segno di vita; e narra anche che strappò a un pastore l’appezzamento di terra per una cifra simbolica, un peso forse, e che il pastore si infuriò quando vide che incredibile abitazione Manrique ne tirò fuori, approfittando anche della scoperta di quattro bolle vulcaniche che vennero trasformate in altrettanti ambienti. Una casa nella roccia, che anticipa di quasi mezzo secolo quella simile nel concetto della direttrice artistica di LV Francesca Amfitheatrof a Ventotene, celebrata da una recente copertina estiva del magazine How to spend it del FT come se fosse una incredibile trovata.
All’interno della casa, scrive Oliver Wainwraight sul Guardian, “Barbarella incontra i Flinstones, la geologia cruda e primitiva della costa terrestre viene arredata con uno stile lineare anni Sessanta”. Ma ci si legge anche un tocco kubrikiano da Korova Milk Bar insieme a un’aria da Playboy Mansion, ma più fluida ed Europea – morta la moglie, Manrique trovò la felicità con un uomo, che diventò il suo compagno di vita sull’isola; e con una inevitabile eco di Gaudì, ma Gaudì nelle sue leve più sofisticate, lontano da quel tocco cialtrone un po’ Desigual che abbassa le quotazioni dell’autore di casa Batllò nei circoletti più hip dell’architettura e del design di oggi. Proprio gli stessi in cui Cesar Manrique, ecologista e anticipatore di scenari alternativi al consumo di massa, demiurgo di Lanzarote capace di incanalare in progetti unici arte, design e architettura, è oramai una star.
- Ringraziamenti:
- Questo articolo nasce in occasione di un invito di Samsung a visitare Lanzarote. Secondo il marchio coreano, il design di Manrique, che pone in continuità le forme della natura con quelle create dall’uomo, rappresenta la filosofia della linea di smartphone pieghevoli Galazy Z Flip e Galaxy Z Fold. Per le immagini di questo articolo, salvo dove diversamente indicato, è stato usato un Galaxy Z Fold 4: la sofisticata interfaccia della app fotocamera quando si usa il dispositivo aperto a novanta gradi permette non solo di vedere una immediata preview della foto scattata in una porzione dedicata dello schermo, ma anche di inquadrare usando lo schermo in orizzontale, come si faceva con le fotocamere a pozzetto, una configurazione utile per la foto di paesaggio, di architettura e di strada. Aperto a tablet e con una tastiera bluetooth collegata, il dispositivo si è trasformato anche in una utilissima macchina da scrivere da tasca.
- Le citazioni:
- Nel testo compaiono alcuni brani tratti dai testi di due grandi scrittori contemporanei europei: Josè Saramago, che a Lanzarote passò gli ultimi anni della sua vita: Manrique gli regalò uno specchio, ancora custodito nella sua casa-museo; e Michel Houllebecq, che dedica all’isola un libello in cui fiction e saggistica si mescolano, non citando mai Manrique o il suo lavoro; come ci si potrebbe aspettare dall’autore francese, c’è molta misantropia, tanto pessimismo e una netta inclinazione alla malinconia, ma anche la sua solita insuperabile anti-ironia: tutte caratteristiche che si sposano perfettamente con i paesaggi alienanti di Lanzarote e con il suo turismo.