Solo una lunga sequenza di lumi, disposti ordinatamente a terra dai beduini, illumina di notte il cammino verso Petra. Quelli e la luce elettrica della città di Wadi Musa, che si alza dalle colline e ristagna nel cielo, interrompendosi all’entrata della lunga gola che si apre infine con la vista del Tesoro. Al-Khazneh, così si chiama in arabo, simbolo di Petra, con la sua monumentale facciata scavata nell’arenaria, resa celebre in tutto il mondo a fine anni Ottanta dal terzo Indiana Jones. Nel film, è il luogo dov’è custodito il Graal.
Qui la sera i turisti arrivano, passano tra le rocce rossastre erose dal vento e dall’acqua, ritagliate dall’uomo in forma di nicchia o di sepolcro; si accomodano sulla sabbia per ascoltare le storie ancestrali dei beduini, che le raccotano accompagnandosi con strumenti antichissimi, come la chitarra con una sola corda, nascosti nel buio del deserto. Solo l’occhio della fotocamera del telefono – un Samsung Galaxy S22 Ultra –, non quello umano, riesce a distinguerne le fattezze nell’oscurità, catturandone l’immagine con il Tesoro, alto quaranta metri e antico di oltre duemila anni, a fare da sfondo di questo teatro unico.
Ma Petra era ed è molto più del Tesoro. Al suo apice, nella grande spianata arida dove oggi ogni giorno si accalcano i turisti, borraccia alla mano sotto al sole, e i beduini offrono passaggi sul dorso di cammelli e asini agghindati con tessuti sgargianti, vivevano 20mila persone, scorreva un canale artificiale e c’era un grande giardino con piscina. I suoi abitanti erano maestri nella gestione dell’acqua e avevano costruito un sistema di dighe, cisterne, terrazze e tubature con cui trasformare i violenti alluvioni invernali in una risorsa, e grazie ai quali non sprecare neanche una singola goccia di pioggia.
Fondata probabilmente negli stessi anni in cui ad Atene viveva Socrate, Petra era la capitale del regno dei Nabatei, un popolo beduino che fece la sua fortuna con il commercio. Oggi la città si trova nella parte meridionale della Giordania, all’epoca era vicinissima alla via dell’incenso, un network di rotte commerciali che collegava il mediterraneo con l’Oriente. L’incenso, che serviva a profumare i morti, era nell’antichità un bene di lusso, e trafficarlo aveva reso ricchi i Nabatei.
Qui la sera i turisti arrivano, passano tra le rocce rossastre erose dal vento e dall’acqua, ritagliate dall’uomo in forma di nicchia o di sepolcro.
Fu il re Aretes IV, che regnò fino all’anno 40 e di cui il Tesoro è l’immane mausoleo, a trasformare Petra in una città monumentale: a lui si devono una maestosa strada colonnata larga 18 metri, un teatro da 5000 posti con sistema anti-allagamento, terrazzamenti e un grande tempio, con colonne probabilmente alte quasi venti metri e sormontate da capitelli a forma di testa di elefante. Un simbolo indiano, un omaggio ai partner d’affari: come spiega lo studioso Ian Reynolds nel paper “The history and architecture of Petra”, insieme alle merci, i Nabatei facevano circolare idee e stili provenienti da culture differenti.
Ne sono un esempio evidente i due più colossali edifici della città, entrambi mausolei, il Tesoro, da una parte, e il Monastero, a cui si accede con una scalinata di 800 gradini. Entrambi uniscono in modo unico elementi mesopotamici con l’architettura ellenistica, richiami alla mitologia greca, nicchie – come se ne trovano ovunque scavate sulle pareti rocciose intorno a Petra e lungo la gola che dà accesso alla città. Dietro entrambe le gigantesche facciate, una singola stanza per ognuno, sproporzionatamente piccola rispetto a quello che si presume da fuori, il soffitto bruciato dal fuoco dei beduini che, nel tempo, hanno trovato riparo all’interno.
Le gigantesche colonne magistralmente scavate nella roccia dagli artigiani Nabatei erano un puro ornamento, non sorreggevano niente: come spiega l’archeologo Ziad Al-Saad con Faudi Al Wacked nel catalogo di una delle più grandi mostre dedicate ai Nabatei, “The mysterious and innovative Nabataeans”, per l’antica popolazione beduina “le forme erano liberate dalla loro funzione, e venivano impiegate su un piano puramente decorativo”. Quella architettura era un disegno che si inscriveva sull’arenaria, una citazione di altri edifici, un simulacro. Al tempo stesso, l‘architteura nabatea rappresenta ancora oggi un incredibile esempio di interazione tra paesaggio e presenza umana.
Subito fuori dall’ingresso alla città, su una collinetta che sovrasta la biglietteria, c’è il nuovo museo di Petra, un parallelepipedo di cemento progettato dallo studio giapponese Yamashita Sekkei, una struttura modernissima e un po’ ovvia che si potrebbe trovare in ogni angolo del mondo.
L’architettura nabatea ha invece ispirato due nomi stellari della progettazione, Zaha Hadid e Jean Nouvel. Il guest editor Domus 2022 riprende la lezione dell’antico popolo beduino adattandolo alla modernità nello Sharaan Resort di Alula, una piccola Petra dell’Arabia Saudita qualche centinaio di chilometri a sud: una architettura, quella nabatea, spiega Nouvel, che ha il raro dono di usare l’astrazione, scolpendo all’interno del paesaggio anziché competere con esso. “Il nostro progetto celebra lo spirito nabateo senza renderlo una caricatura”, chiosa l’archistar francese.
La Casa della cultura e dell’arte di Amman, intitolata all’attuale re Abdullah II, è invece un progetto di Zaha Hadid Architects, reso pubblico nel 2010 e ancora in corso di costruzione. Il riferimento diretto di questo parallelepipedo ricurvo e bianco è Petra, sia metaforicamente – ispirazione di una oasi dedicata alle arti performative – sia nel richiamo al processo d’erosione “che ha plasmato i contorni di Petra”, e con cui l’antica città è cresciuta in simbiosi: in questo nuovo edificio, spiega ZHA, l’erosione articola gli spazi pubblici, evidenziando strati di sedimentazione tra linee fluide e delineando, per sottrazione, le aree dedicate alla performatività.
Lasciandosi alle spalle il Tesoro, tra bancarelle di ninnoli su cui vaga il sospetto del Made in China e cammelli pacificamente acquattati all’ombra, sfilando accanto alla cosiddetta strada delle facciate e lasciandosi il teatro sulla sinistra, si raggiunge una lunga scalinata che si arrampica sopra l’area delle sepolture; guadagnando in altitudine, si trasforma in mulattiera.
Tanti beduini abitavano Petra e la vicina Little Petra, con le loro tende e baracche.
Fa caldo, il vento batte sulle baracche, solleva polvere rossastra dai tappeti appoggiati sulla roccia. La via termina infilandosi dritta nell’abitazione di un beduino, che offre tè e caffè caldi, acqua, spremute di arancia e melograno o un barattolo di coca cola per una cifra modesta rispetto alla vista mozzafiato, a strapiombo sul Tesoro, che offre il suo rifugio. “Italiano furbo”, è l’unica cosa che sa dire nella mia lingua.
Racconta di abitare qui e che dall’altra parte, su una cima gemella, troverò Cristina, una donna italiana che ha deciso di vivere qui. Tanti beduini abitavano Petra e la vicina Little Petra, con le loro tende e baracche. Ora per la maggior parte si sono trasferiti in un villaggio a nord della città, con acqua e case in muratura, costruito dallo stato giordano, che provvede anche scuole e medici.
Lo stesso scenario scorre a lato delle autostrade, dove ogni tanto un cammello attraversa; un tempo punteggiate di tende, ora si vedono solo case in muratura per più di un centinaio di chilometri, andando verso sud, fino al deserto rosso di Wadi Rum.
Tante le auto nel parcheggio all’ingresso, come in un centro commerciale nel weekend. Il deserto similmarziano, abituato da sempre dai beduini, è trasformato nell’ultima frontiera turistica di un mondo che il surriscaldamento climatico spinge incontro all’aridità globale, un assaggio del futuro in formato avventura di lusso con richiami similmarziani.
Con i soldi che arrivano dalla capitale Amman si costruiscono villaggetti a schiera sulle terre che i beduini affittano, alcuni con tende che all’interno poco hanno da invidiare a un cinque stelle di Dubai. Ma l’abitazione più gettonata è la bolla trasparente, prototipo fantascientifico tanto affascinante quanto forse poco sostenibile nel deserto, un tuffo al cuore in una terra dove il beduino – ovvero “l’uomo che rifugge la modernità“, questo significa in arabo – ha sempre trovato un incredibile equilibrio, nel suo abitare, tra architettura e natura. Nella notte del deserto cremisi la luce delle stelle è smorzata da quella elettrica, e nel silenzio borbottano i generatori a benzina.
Questo breve racconto dell’architettura nabatea, di Petra e Wadi Rum nasce da un viaggio in Giordania, promosso da Samsung Italia per provare sul campo la fotocamera della nuova serie smartphone Galaxy S22 e in particolare le sue performance in fatto di #nightography. Per le foto di questo articolo è stato usato un Samsung Galaxy S22 Ultra.