Pensare al wayfinding come a un’azione, rispetto a una disciplina, è probabilmente l’unico modo per comprenderne appieno il valore e il ruolo critico nel plasmare l’esperienza dell’utente in uno spazio – almeno, secondo una nuova scuola di pensiero di esperti.
Solitamente definito come il processo di accertamento della propria posizione in un ambiente, la pianificazione di un percorso consigliato e l’offerta degli strumenti per seguirlo, il wayfinding è cambiato notevolmente nel corso degli anni.
“Non si progetta il wayfinding, si fa il wayfinding”, afferma la dottoressa Colette Jeffrey, professore associato di Wayfinding e Inclusive Design presso la Birmingham City University. Secondo la dottoressa, assumere un punto di vista accademico sull’argomento significa rispondere alla domanda chiave: “Che cosa facciamo quando ci orientiamo?”.
Tutto inizia con la comprensione del fatto che le persone trovano la loro strada in modo diverso, a seconda non solo del luogo ma anche delle loro condizioni fisiche e psicologiche durante il viaggio, spiega Jeffrey. “Immaginate di muovervi in un ospedale pensando di dover morire di cancro rispetto a chi ha appena avuto un bambino”.
Pertanto, una grande responsabilità degli architetti e dei progettisti è quella di non fare ipotesi sull’orientamento nell’ambiente costruito semplicemente in base alla propria esperienza personale, ma di spostare l’attenzione sull’inclusività e l’accessibilità.
“Un sistema di wayfinding ben funzionante deve essere multisensoriale, sia visivo che acustico, per diventare completamente e totalmente inclusivo”, aggiunge Jeffrey. “Ma è molto complicato e in pochi lo fanno bene”.
Sebbene l’accessibilità degli edifici vada costantemente migliorando (in particolare nel Regno Unito, dopo il Disability Discrimination Act del 1995), la progettazione inclusiva spesso non viene integrata nella fase di costruzione. “In genere veniamo coinvolti solo quando c’è un problema”, osserva la professoressa.
Trovare un compromesso fra design e architettura
Un’altra sfida del wayfinding contemporaneo è quella di essere armonioso e coerente all’interno di uno spazio. Un esempio magistrale è il progetto di segnaletica per il nuovo Design District di Londra, che ha utilizzato accuratamente grafica, colori, forme e materiali per riflettere e celebrare la natura eclettica del quartiere.
Secondo lo studio di design DNCO, un’autorità londinese nei sistemi di wayfinding, per creare armonia è fondamentale “comprendere i molteplici spunti che le persone seguono”, che vanno ben oltre la segnaletica.
“Le persone seguono l’architettura, la luce, i suoni e gli odori quando si muovono; l’ambiente le guida in uno spazio molto più di quanto non faccia il puro wayfinding”, spiega a Domus Patrick Eley, direttore creativo dello studio.
Sulla base di queste considerazioni, l’esperto di wayfinding dovrebbe progettare uno specifico codice di orientamento unico per ogni spazio e sviluppare gli strumenti per aiutare le persone a imparare quel codice rapidamente quando arrivano al sito.
“Ma bisogna sempre ricordare che si ha a che fare con persone, età e lingue diverse”, aggiunge Eley. “Perciò le nozioni di chiarezza, coerenza e congruenza con il codice diventano molto importanti”.
Recentemente DNCO ha lavorato a un importante progetto di wayfinding per il Victoria and Albert Museum di Londra. Uno dei principali insegnamenti tratti dal lavoro è stato quello che la segnaletica deve sempre essere sensibile all’ambiente.
“Soprattutto per i musei e le gallerie d’arte, è necessario pensare in modo artistico e architettonico, rimanendo molto consapevoli del luogo in cui si colloca un’insegna”, spiega Eley. “Appendere qualcosa accanto a un’opera d’arte sulle pareti di un museo è una responsabilità enorme. Ma è anche bello perché si lavora con persone che comprendono davvero il potere del design e il linguaggio degli oggetti”.
Le persone seguono l’architettura, la luce, i suoni e gli odori quando si muovono; l’ambiente le guida in uno spazio molto più di quanto non faccia il puro wayfinding
Eley sottolinea anche l’importanza di astenersi dalla tentazione di ‘spiegare’ piuttosto che ‘offrire ’. “Non volevamo arrivare a escludere l’arte che la gente viene a vedere. Si tratta solo di aiutarli a trovare la strada giusta”.
Per questo motivo, lo studio ha optato per un approccio neutro, eliminando completamente il colore dalla segnaletica del museo V&A. “Inoltre, non volevamo sovraccaricare le persone di informazioni. Essere chiari significa dare le informazioni di cui si ha bisogno nel momento in cui servono per prendere una decisione”, aggiunge.
Ma questo dipende anche dalla natura architettonica stessa dello spazio, al punto che la linea di demarcazione che separa architettura da segnaletica – e viceversa – può confondersi. “A volte sia il wayfinding che gli elementi architettonici contribuiscono a definire un luogo”, commenta Eley. “L’insegna di Hollywood a Los Angeles segna il nome di un luogo, ma lo crea anche; allo stesso modo in cui associamo immediatamente lo Shard alla città di Londra”.
L’evoluzione del wayfinding: vittorie post-Covid e nuove sfide
Anche quando si occupa dell’aspetto progettuale, il consulente in materia di wayfinding si concentra costantemente su come utilizzare un linguaggio inclusivo. Che si tratti di scegliere le parole in modo più accorto (ad esempio “Staff only” invece di “No entry”) o di utilizzare icone per superare le barriere linguistiche, il tono deve essere accogliente per tutti.
Un buon esempio dello sforzo dell’industria in questo senso è la creazione di più spazi non-binary e senza connotazione di genere. “Le classiche icone maschio/femmina utilizzate per indicare i servizi igienici non sono assolutamente al passo con la nostra società”, sottolinea Eley. “Il wayfinding ha un’enorme responsabilità nel decostruire questo concetto”.
A suo avviso, tutti gli spazi diversi dai servizi igienici utilizzano icone per rappresentarne la funzione, mentre i bagni pubblici tendono a essere identificati con l’icona del loro destinatario. Questo è accaduto principalmente per ragioni legate a tabù culturali ma, dice Eley, la domanda principale ora diventa: “Come possiamo creare un’icona per questi spazi che li renda assolutamente inclusivi?”.
Il designer concorda che il Covid abbia contribuito in modo massiccio a spostare l’ago della bilancia. “Durante la pandemia, le persone si sono rese conto dell’importanza degli spazi pubblici per l’aggregazione e del fatto che segregare sulla base del genere, in ultima analisi, non porta a spazi inclusivi. Credo che il cambiamento sia accelerato”.
Inoltre, in tempi di ripensamento della funzione degli uffici e del ruolo degli edifici nel favorire la salute e il benessere, anche il wayfinding ha assunto la flessibilità come priorità.
“Abbiamo imparato che la funzione degli spazi può cambiare, e questo è un aspetto importante da considerare quando progettiamo il codice della segnaletica. Il wayfinding può adattarsi alla natura mutevole di un sito? Ad esempio, quando l’edificio viene venduto o si verificano eventi come il Covid?” si chiede Eley.
Ma con le conoscenze acquisite sono arrivate anche una serie di nuove sfide. Alcuni dei sistemi di wayfinding di emergenza adottati negli spazi pubblici durante la pandemia non erano affatto inclusivi. La segnaletica a terra per indicare le aree di distanziamento sociale o di posizionamento per le code che conosciamo bene non tenevano conto delle persone ipovedenti.
Anche la sempre più diffusa adozione di segnaletica digitale per evitare contatti fisici ha posto un nuovo problema, legato all’aspetto di sostenibilità e consumo energetico degli edifici stessi.
Quindi, cosa cosa possiamo aspettarci per l’evoluzione del wayfinding? Secondo la dottoressa Colette Jeffrey, il futuro del wayfinding prevede l’esplorazione di queste considerazioni di progettazione inclusiva fin dall’inizio della fase di costruzione di un edificio. “Una parte importante della soluzione di questi problemi è la mappatura dei diversi percorsi, quindi più utenti diversi vengono presi in considerazione, migliore sarà il sistema”