Martino Stierli, Philip Johnson Chief Curator del Dipartimento di Architettura e Design del Museum of Modern Art dal 2015, ha di recente pubblicato Montage and the Metropolis (Yale University Press), un libro che esplora la relazione tra l’architettura della città e la sua rappresentazione attraverso la storia del montage, le avanguardie del Ventesimo secolo e la metropoli per eccellenza, New York. L’abbiamo incontrato a New York per farcelo raccontare. Ci puoi spiegare la genesi del libro? Da lungo tempo ho un interesse per le forme di rappresentazione dell’architettura e dello spazio urbano attraverso i nuovi media. Dopo aver finito il mio dottorato sull’uso della fotografia e del film in Learning from Las Vegas, ho voluto continuare in questa direzione, ma cambiando lo scopo storico della mia ricerca sulle avanguardie del primo Novecento. Il punto di partenza sono stati i fotomontaggi di Mies van der Rohe. I miei studi si sono sviluppati all’inizio all’interno di un gruppo di ricerca interdisciplinare di cui facevo parte all’Università di Basilea (Eikones) e che ha indagato il ruolo delle immagini nella cultura moderna e contemporanea. Montage and the Metropolis è stato metodologicamente influenzato in una certa misura da questa esperienza.
Montage and the Metropolis: la città e la sua rappresentazione
Martino Stierli, autore del libro “Montage and the Metropolis”, ci racconta come il montaggio sia uno strumento per la produzione di significato.
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- Francesca Cigola and Matteo Milani
- 10 gennaio 2019
La prima parte del libro è incentrata sul significato del montaggio e sulla differenza con il collage, seguita da tre capitoli dedicati a Mies van der Rohe, Sergej Eizenstejn, Rem Koolhaas. Puoi spiegare questa differenza e come i tre casi studio che hai scelto nel campo dell’architettura, del cinema e dello spazio architettonico letterario hanno utilizzato questi strumenti di rappresentazione? Nella mia definizione, montage, in contrapposizione a collage, non è semplicemente uno strumento di visualizzazione, ma di produzione di significato. In un montaggio, lo spazio tra due elementi giustapposti, adiacenti, acquista significato dal contributo attivo dello spettatore che colma quel vuoto. Il collage definisce invece una pratica artistica che ha a che fare con la matericità e la tattilità, ed è in maniera minore uno strumento epistemologico. Mies era coinvolto nelle avanguardie artistiche, in particolare i dadaisti, che sono ampiamente riconosciuti come gli inventori del montaggio. La mia ricerca esplora questo legame con i dadaisti e spiega come il frequente utilizzo di Mies del fotomontaggio nella rappresentazione dei suoi progetti cambi dalla prima fase della sua carriera europea a quella successiva americana, e interpreta questo cambiamento all’interno di un quadro politico. Eizenstejn era interessato a ciò che chiamava “montaggio intellettuale” secondo la mia definizione di mezzo per produrre un significato visivo. Formatosi come architetto e ingegnere, ha molti punti di contatto con l’avanguardia architettonica: la sua teoria del montaggio è infatti fondamentalmente architettonica e urbana. Nel suo testo Montage and Architecture, sostiene che l’architettura e lo spazio urbano sono esperienze proto-cinematografiche che implicano un meccanismo di pensiero simile al montaggio. In una prospettiva contemporanea, il capitolo dedicato al libro di Rem Koolhaas Delirious New York discute come la Neoavanguardia o il Postmodern tornino a concludere il progetto delle avanguardie storiche. Koolhaas è molto interessato al cinema, alle avanguardie sovietiche, al concetto di montaggio e a come potrebbe essere applicato all’architettura. Delirious New York, in un certo senso, conclude la storia del montaggio nel Ventesimo secolo, ma anche la storia della metropoli.
La metodologia interdisciplinare utilizzata in tutto il libro è evidente nell’ultimo capitolo di Delirious New York: alla Cornell University al tempo Oswald Mathias Ungers, Colin Rowe, Emilio Ambasz influenzano a diversi livelli l’ossessione di Rem Koolhaas per New York e la sua passione per l’Arcade Project di Walter Benjamin… C’è una chiara metodologia storiografica e un tentativo di contestualizzare Delirious New York nel suo tempo e nell’atmosfera intellettuale in cui è nato. Ho cercato di demistificare il libro e rendere comprensibile da dove provengono le sue idee più a larga scala. Legare Delirious New York al contesto immediato della sua genesi attorno alla Cornell e all’Institute of Architecture and Urban Studies aiuta a capire che il libro non è solo un’invenzione geniale isolata – cosa che naturalmente è – ma fa anche parte di una conversazione più ampia che si stava svolgendo negli anni Settanta a New York. Tuttavia, ero anche interessato a un approccio più teorico e a un discorso sulla modernità e la storia dell’uso dell’immagine in architettura. Per questo motivo, parlo di Delirious New York anche nel contesto degli scritti di Walter Benjamin sulla metropoli. In questo senso, forse, sto combinando due diverse metodologie: come storico, stabilisco i fatti, ma come teorico, speculo su come questi fatti si riferiscono a contesti più ampi. Il tuo libro termina con Delirious New York pubblicato nel 1978: è perché questa è stata l’ultima ricerca d’avanguardia del secolo scorso? Perché il montaggio non è più uno strumento di rappresentazione? Perché New York ha perso il suo ruolo di metropoli per eccellenza? Cosa ci sarà dopo? Il mio interesse come storico è dare un senso a ciò che è accaduto nel passato con una prospettiva contemporanea. Il mio ultimo capitolo riguarda, infatti, New York come la metropoli per eccellenza del ventesimo secolo e Koolhaas che ha deliberatamente rivisitato le avanguardie storiche. È la distanza temporale che ci aiuta a capire, guardando indietro. Oggi, c'è la sensazione che stiamo vivendo al di là dei manifesti, al di là delle innovazioni radicali e senza una direzione chiara. Mi chiedo se quel sentimento non sia qualcosa che ha una propria storia: le persone tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo forse si sono sentite allo stesso modo riguardo al loro presente. Ci sono questi momenti d’insicurezza, in cui invece di avere risposte siamo più interessati a fare domande. E questo ha inevitabilmente un impatto su come scriveremo la storia. In che modo la tua ricerca ha influenzato la tua visione curatoriale nel modo in cui produci gli spazi di una mostra? Non è qualcosa cui ho pensato deliberatamente, ma sono molto interessato alla percezione dello spazio mentre lo percorro, un concetto chiave della teoria di Eizenstejn. Nella mia ultima mostra “Toward a Concrete Utopia: Architecture in Yugoslavia, 1948–1980”, m’interessava includere non solo video, ma anche ingrandimenti a larga scala delle fotografie di Valentin Jack. Posizionate strategicamente nelle gallerie, video e foto creano un senso di processione, un montaggio nello spazio. C’è anche un più ampio pensiero di natura concettuale per l’uso del montaggio e per come guardiamo alla storia oggi. In precedenti occasioni, il Museum of Modern Art ha tentato di raccontare come l’arte moderna si svolgesse in modo teleologico. Nella nostra epoca crediamo in una molteplicità di storie diverse da raccontare e che potrebbero essere in conflitto tra loro: la storia dell’arte moderna e dell’architettura non sono lineari, ma polifocali. Il concetto di montaggio diventa quindi utile anche come modello per la storiografia.