Thomas Rainer è un architetto del paesaggio che vive ad Arlington, in Virginia; è professore alla George Washington University e co-autore di Planting in a Post Wild World, Timber Press, 2015. Dopo aver lavorato per Oehme, van Sweden and Associates e per Rhodeside & Harwell, è oggi parte di Phyto Studio, con cui promuove un nuovo approccio ecologico alla progettazione del paesaggio.
L'osservazione e l'interpretazione delle comunità vegetali presenti in natura sono il fondamento della sua ricerca, associate all'applicazione di criteri di funzionalità ecologica in contesti urbani; il risultato è la costruzione di paesaggi a bassa manutenzione, che imitino l'innata indole delle piante a crescere in sistemi complessi e ne sfruttino la naturale resilienza.
Planting in a Post Wild World, il tuo libro pubblicato insieme a Claudia West nel 2015, è sia un libro tecnico, sia una potente fonte di ispirazione, e contiene una sorta di manifesto in cui le piante sono centrali, potresti spiegarci di che cosa si tratta?
Ci interessa indagare le possibilità implicite nella progettazione del paesaggio, soprattutto la sua capacità di indirizzare alcuni dei cambiamenti in corso nel mondo. Questo significa portare più complessità in questa disciplina rispetto a quanto è avvenuto storicamente e cominciare a pensare alle piante come a qualcosa di più di semplici oggetti e ornamenti, pensarle cioè come dei sistemi, delle comunità.
Che cosa intendete per sistemi e comunità di piante?
Facciamo riferimento al sistema dinamico che le piante hanno sviluppato nel tempo, che possiamo considerare una sorta di social network. Se pensiamo a come le piante interagiscono possiamo comprendere che i sistemi hanno esponenzialmente più potere in termini di resilienza e di capacità di resistere al cambiamento rispetto alle piante prese come “oggetti individuali”.
Non stiamo cercando di importare nella progettazione del giardino la complessità della natura selvatica, ma parte del del suo modo di funzionare, in modo tale che l'effetto non sia esclusivamente decorativo.
Fate riferimento a un linguaggio corporeo delle piante...
Stiamo cercando di portare l'attenzione su come le piante funzionano in un giardino, su diversi livelli, in una sorta di stratificazione vegetale. Invitiamo le persone a guardare le piante non dall'altezza di un essere umano, ma dall'altezza di un coniglio. Osservare la forma delle piante spesso rivela in quale livello della stratificazione si trovano; ad esempio, una pianta con forma conica che si allarga verso l'alto, con gli steli inferiori nudi, ci dice che probabilmente si è adattata a crescere attraverso la vegetazione di altre piante: in un sistema, quindi, non da sola. Questa pianta, se piantata in grandi masse, avrà sempre dei problemi, ci saranno sempre infestanti che cresceranno insieme a lei cercando di sopraffarla. Cosa che non succederà se verrà piantata con le sue compagne naturali, creando delle combinazioni ad incastro più strette, cercando di coprire il più possibile il suolo e creando un sistema più stabile.
Il garden design è spesso concentrato sul rendere più belli i luoghi, come pensate possa cambiare in futuro questo paradigma?
C'è una meravigliosa tradizione che viene dall'orticoltura tradizionale e dalla storia del giardino, che ci aiuta a capire come mettere in relazione le piante e le persone e in che cornice inserire i progetti, è da questi elementi iconici che possiamo partire. Il modo in cui disponiamo le piante, come le assembliamo in geometrie piacevoli, come le mettiamo in relazione con gli edifici... sono tutti elementi importanti, ma quando pensiamo alla tessitura vegetale che riempirà questi spazi disegnati abbiamo la possibilità di inserire dei mix di piante con un grado maggiore di biodiversità. È come accogliere il meglio di 4.000 anni di grandi tradizioni giardiniere, integrando un pensiero nuovo, che renda il progetto più dinamico, complesso, “biodiverso” e stimolante.
Si parla molto dei pericoli legati al cambiamento climatico, ma nel libro mettete in guardia sui rischi legati proprio alla perdita di biodiversità, che vengono per lo più trascurati. Possiamo far fronte a questa perdita anche all'interno delle città, attraverso una corretta progettazione?
Penso su scala globale: dobbiamo coltivare il selvatico e contemporaneamente inselvatichire i nostri spazi coltivati. Le grandi aree naturali, i parchi, sono luoghi che richiedono moltissimi interventi di gestione per mantenere alta la biodiversità, e non si tratta di semplice conservazione - che sappiamo non essere più sufficiente - ma di gestione attiva. Questi residui di natura spesso non possono più funzionare autonomamente e siamo costretti in un certo senso a “coltivarli” dal punto di vista ecologico. Allo stesso tempo possiamo rivolgere lo sguardo ai nostri piccoli spazi urbani: aggregati, tutti questi piccoli frammenti possono fare un'enorme differenza per la biodiversità, ad esempio per un impollinatore. Alcuni bellissimi giardini con alto valore ecologico, come la High Line di Piet Oudolf a New York o l'Olympic Park di Nigel Dunnett a Londra, sono tra i giardini più visitati al mondo, il che ci dice che quel che va bene per un impollinatore va bene anche per le persone!
Qual è il tuo messaggio per il futuro?
Penso che sia un momento molto propizio per la progettazione del paesaggio, ci sono nuove tecniche, nuove possibilità, nuove forme e nuove strade da percorrere che mostrano il potenziale di un approccio ecologico a questa disciplina. Vi lascio con l'invito a indagare il permeabile confine tra design e architettura e un vigoroso naturalismo.