Il primo commento al filmato su youtube in cui si vede Marilyn Monroe al funerale di Clark Gable è una domanda, abbastanza comune di questi tempi: “Erano tutti vestiti meglio una volta, cosa ci è successo?”
Questione di stile: perché le case di moda guardano all’architettura
Architetture e paesaggi straordinari: da Yves Laurent con Villa Malaparte a Louis Vuitton con Luis Barragán, i luoghi come protagonisti della moda.
View Article details
- Cristiano Vitali
- 19 febbraio 2018
Già, cosa è successo? In sostanza, che non è più un affare di sartoria e alta moda come nel 1961, e che tra prêt-à-porter e mass market vestirsi significa essere campanilisti: scegliere cioè di appartenere a uno stile preciso. Gli sforzi che le case di moda mettono in piedi per richiamare attenzione si sono ampliati alla branded architecture, ma il campo di battaglia è ancora quello pubblicitario. E come si veicola un sogno di esclusività in un periodo incerto come il 2018? Col viaggio: oggi come ai tempi di Diana Vreeland. “L’occhio deve viaggiare”, diceva la ex direttrice di Vogue. Specie su carta patinata. Attraverso paesaggi e architetture straordinarie. In questo senso, lo spirito che nel 1942 la spinse a commissionare un servizio di moda presso la Rose Pauson House di Frank Lloyd Wright, è pressoché lo stesso che sorregge le ambizioni di Saint Laurent, che ha usato Villa Malaparte per le riprese video della collezione primavera estate 2018: ovvero uno scambio energetico proficuo per entrambi.
Anche se nel corso dei decenni questa pratica ha avuto fortune alterne, utilizzare un edificio permette di sceneggiare uno stile con più efficacia, oltre a offrire molteplici variazioni d’inquadratura. E per quanto riguarda le costruzioni, una lettura più sensuale della loro struttura. La Miami di Guy Bourdin, per esempio, fotografata per le campagne pubblicitarie delle scarpe di Charles Jourdan degli anni Settanta, è più vicina all’idea di Miami sedimentata da frammenti filmici e televisivi del migliore sightseeing tour della città.
Mentre i dettagli architettonici di Thierry Mugler, un po’ anonimi un po’ Cité des sciences et de l’industrie di Parigi, diventano quinte clamorose su cui le modelle si muovono come formiche. Il punto di svolta però, lo realizza Jean-Paul Goude nel 1990, quando in occasione dello spot del profumo Égoïste di Chanel, ricostruisce per esigenze coreografiche nel deserto brasiliano l’Hotel Negresco di Nizza. Trenta secondi di frustrazione femminile raccontati attraverso i dettagli romantici di un’architettura Belle Époque, ripresa giustamente di sghembo. E forse, visto la sequenza di apertura e chiusura delle porte-finestra al ritmo sincopato di Égoïste, un significativo contributo al business delle persiane, anche se verificare i dati di vendita sarebbe impresa improba.
Pochi tuttavia si possono permettere i budget hollywoodiani di Chanel. Molto più conveniente usare location rinomate. Ma come essere originali senza scadere nell’effetto Grand tour genere Woody Allen, che grazie a finanziamenti locali ha girato film in ogni capitale europea per un decennio? Villa Malaparte è un colpaccio, la Sheats-Goldstein house di John Lautner a Los Angeles, forse la residenza più sovraesposta, significa arrivare ultimi.
D’altronde, il potere scenografico di Brasilia oppure di Versailles rappresenta una sicurezza. Cionondimeno, riproporre gli scorci di architetture note non vuol dire non riuscire a sorprendere ancora una volta. Nel 2016 Louis Vuitton ne ha scelto una che su Instagram non passa giorno senza intravederne i colori, il ranch Cuadra San Cristóbal di Luis Barragán. Solo che la lettura del fotografo Patrick Demarchelier è molto più articolata dei soliti scatti rubati a Google. Mentre quella di Mel Bles per Fendi man di un anno dopo, amplifica l’immaginario classico dei dipinti di David Hockney facendolo combaciare con un’architettura West Coast reale. Anonima, ma dall’aspetto mid-century. Se mai qualcuno mettesse in dubbio la potenza attrattiva del tris d’assi composto da piscina, vetrate a tutta altezza e un orizzonte di palme. Niente però, nella storia recente batte la consapevolezza spaziale che nello spot del profumo Kenzo World si percepisce del mitico Dorothy Chandler Pavilion, la sede storica della cerimonia degli Oscar. Esplorato in tutto il suo splendore fanée dalla telecamera di Spike Jonze che segue il ballo convulso tra specchi, scale e aree di disimpegno di Margaret Qualley.
Il corto della serie Miu Miu Women’s Tales #2 di Lucrecia Martel in cui un gruppo di modelle si trasforma in creature alate, o almeno si suppone, ma non prima di avere permesso a noi di avere imparato tutta la geografia dell’imbarcazione. Una lunga strada dal divano no logo della campagna per il profumo Obsession. Forse l’unico caso eccezionale di un oggetto di arredo diventato, lui e Kate Moss, simboli di un approccio minimal alla vita e al design di una decade, i Novanta. Oggi, altro che grunge.
Il gioco narrativo è sempre un viaggio, ma stavolta nella memoria stratificata di cinema e storia. Prima con la cartapesta della fantascienza anni Cinquanta, ora con #GucciHallucination: un immaginario illustrato da Ignasi Monreal che mescola l’ultima collezione estiva assieme all’Ofelia di John Everett Millis, ai cupoloni di Roma, alle gondole veneziane e Hieronymus Bosch. Still life di fiaba da penetrare come faceva Mary Poppins con i disegni a gessetto sul selciato. E come d’altronde fa l’illustratore nel video della campagna. Un desiderio che si prova anche davanti a una foto pubblicitaria, quando in possesso di una certa gravitas di tempo e spazio fornite dal supporto architettonico. Misterioso o famoso che sia.
Consapevoli che, quando si sceglie quello sbagliato, come ha fatto Zanetti Moda nel 2014 con il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa di Peter Eisenman a Berlino, l’effetto è ripugnante. Nel cinquantennale del 1968, pochi giorni fa Gucci ha presentato la campagna pre-fall 2018, ispirata alle contestazioni studentesche del maggio parigino. Con focus sui tafferugli e i licei, con il loro allure vintage di inferriate, sedie di formica e sedute di autocoscienza. È l’ultimo capitolo di una rivoluzione comunicativa che all’attualità ha sostituito un altrove indefinito.