Un anno fa, alla Biennale Architettura di Venezia, il cileno Alejandro Aravena ha riportato al centro del dibattito contemporaneo le tendenze periferiche del contemporaneo. La manifestazione più importante in ambito disciplinare è invasa da progetti, ricerche, teorie e pratiche che affermano il ruolo dell’architettura come creatrice ma anche portatrice di “bene comune”. In questi giorni è stata invece inaugurata a Valparaiso la Bienal de Arquitectura y Urbanismo, ventesima biennale cilena, che di quella veneziana mantiene lo spirito, continuando ad esplorare i territori dell’architettura sociale, cioè che prova a essere inclusiva, pluralista e trasversale. Ne abbiamo parlato con tre membri dell’ampio team curatoriale: Felipe Vera, curatore generale e direttore esecutivo; Jeannette Sordi, curatrice dell’area Accademia e Ricerca; e Claudio Magrini, curatore dell’area Attivismo e Territorio di Valparaiso.
Salvatore Peluso: A differenza delle due biennali di più recente apertura (Chicago e Orleans), che sono fondamentalmente un confronto con il passato, quella di Valparaiso tratta i temi “improrogabili” del contemporaneo, quali sono le urgenze di cui volete parlare?
Felipe Vera: La biennale nasce dal riconoscimento che negli ultimi anni sempre più persone e professionisti parlano di architettura non semplicemente dal punto di vista estetico o formale. Si prova a legare la disciplina a tematiche etiche e sociali e a considerare l’ambiente costruito nella sua complessità. Per questo il repertorio classico dell’architettura non è abbastanza. Abbiamo così deciso di aprire una open call per cercare di registrare quali sono le tematiche considerate impellenti. Dalle proposte abbiamo ricavato sette parole chiave, a cui corrispondono altrettante macro-aree di indagine: comune, partecipazione, vulnerabilità, integrazione, identità, futuro, risorse.
Salvatore Peluso: Quali sono le lezioni apprese dalla biennale di Aravena?
Felipe Vera: Conosciamo personalmente Alejandro e abbiamo avuto più volte l’opportunità di confrontarci criticamente con lui. Se la biennale di Aravena è servita a dare visibilità a temi e progetti considerati marginali dall’architettura mainstream, la nostra è invece una chiamata all’azione, un invito a riflettere collettivamente. Un altro aspetto per cui la nostra diverge dalla Biennale di Venezia è il fatto di essere lontana dai riflettori, avere meno pressioni esterne. In questo modo abbiamo potuto scegliere in modo veramente rigoroso e coerente i partecipanti alla manifestazione.
Salvatore Peluso: Qual è stato il criterio di scelta dei partecipanti?
Jeanette Sordi: Abbiamo suddiviso i contributi in quattro categorie: professionisti, ricercatori, attivisti e istituzioni. Ognuno dei curatori ha cercato di mettere in campo le proprie competenze per fare emergere le diverse connotazioni e sfaccettature delle tematiche trattate. Altra parte fondamentale del processo di selezione è stata la open call. Abbiamo ricevuto quasi 500 proposte da cui abbiamo selezionato circa 50 progetti.
Felipe Vera: Dato il contesto geografico del Cile, abbiamo deciso di portare quindici mostre già esposte altrove ma che riteniamo necessario portare qui a Valparaiso. Tra queste ci sono “Exit” di Diller Scofidio e “Border City” di Fernando Romero Architect.
Salvatore Peluso: Sembra chiaro che un approccio dialogico è alla base della manifestazione. Quali sono le attività della biennale?
Jeanette Sordi: La biennale dura poco più di due settimane in cui abbiamo concentrato una serie di dibattiti e attività per stimolare il dialogo e il coinvolgimento del pubblico.
Claudio Magrini: Abbiamo sviluppato diversi laboratori che affrontano problemi specifici della città di Valaraiso. Uno dei quali è un workshop per studenti con tutor internazionali quali Ecosistema Urbano e Barclay & Crousse. Ad alcuni studi è stato infine proposta una “sfida”. Invece di esporre opere precedentemente realizzate, i partecipanti hanno dovuto realizzare progetti site specific per Valparaiso. In generale possiamo quindi dire che la Biennale del Cile è una biennale produttiva, non solo espositiva.
Se la biennale di Aravena è servita a dare visibilità a temi e progetti considerati marginali dall’architettura mainstream, la nostra è invece una chiamata all’azione, un invito a riflettere collettivamente.
Salvatore Peluso: Nel 2014 la mostra “Uneven Growth” al MoMA è stata sicuramente uno dei passaggi fondamentali per l’affermazione del Tactical Urbanism nel discorso architettonico. A soli tre anni di distanza dall’esposizione newyorkese l’approccio di un’architettura “dal basso” mostra invece molti limiti e problemi. “Bottom up is not enough” enuncia un recente saggio della storica Michelle Provoost. Quali sono le tendenze di questo genere di progetti? Qual può essere il ruolo dell’architetto in questo genere di processi?
Felipe Vera: Penso sia rischioso cercare di trovare formule predefinite. Bisogna sempre considerare attentamente il progetto, la condizione urbana, la scala e il contesto in generale. Noi notiamo che sempre più spesso troviamo un avvicinamento tra approcci bottom-up e top-down. Vediamo dei cambiamenti nell’azione collettiva ma anche nell’attitudine istituzionale.
Claudio Morina: Sono d’accordo nel dire “bottom up is not enough”, è vero che spesso non è sufficiente. Bisogna però riconoscere il valore della pressione continua e radicale esercitata da alcuni gruppi, che è necessaria per inserire alcuni temi nell’agenda politica. Questo è il caso del Mapocho Pedaleable, il progetto di una ciclovia all’interno del fiume che è stato realizzato grazie alla fondamentale spinta della cittadinanza, che occupava il letto del fiume quando il livello dell’acqua era basso, iniziando a immaginare i suoi possibili futuri.
Jeanette Sordi: L’architetto secondo noi può essere uno degli interpreti fondamentali in questi nuovi processi urbani. È una figura che possiede la sensibilità di riconoscere criticità e possibilità delle diverse condizioni urbane, ha la capacità di mediare tra i diversi portatori di interesse e di dar forma ai desideri di cambiamento della cittadinanza. Tornando al progetto Mapocho 42k è stato fondamentale il contributo dell’architetta e ricercatrice Sandra Iturriaga, che ha avuto la bravura di comprendere quali erano le intenzioni della cittadinanza e le ha messe in dialogo con le istituzioni. Il difficile ma necessario dialogo con le varie municipalità ha reso il progetto capace di cambiare permanentemente il volto della città.
- Evento:
- XX Bienal de Arquitectura y Urbanismo
- Date di apertura:
- fino al 10 novembre 2017
- Curatori:
- Felipe Vera, general curator and executive director; Rodrigo Tisi, creative director and special projects curator; Jeanette Sordi and José Mayoral, academy and research curators; Pablo Navarrete, public sector curator; Pola Mora, practitioners curator; Claudio Magrini and Miguel Cancino activism curators
- Luogo:
- Parque Cultural de Valparaíso