Costruire sulle rovine. Rita Capezzuto analizza le strategie attuate per riportare vita alla città.
Ci sono luoghi comuni che legano città pesantemente danneggiate in tempi più o meno recenti dalla guerra. Uno di questi è la sarcastica affermazione che tanto Berlino quanto Beirut sono state distrutte due volte: la prima volta dai bombardamenti, la seconda dalla ricostruzione. La frase è a effetto, ma rende bene la complessità di posizioni culturali e strategie che si delineano davanti alla ricomposizione di aree urbane devastate e inquietantemente private della loro identità. Se non ci fossero di mezzo colossali interessi economici, si potrebbe anche trovare qualche debole legittimazione a interventi urbanistici brutali e dire che le amnesie storiche servono a cancellare un passato doloroso.
Difficile comunque ricorrere a questa motivazione quando la storia è tanta, e stratificata con implacabile evidenza e ricchezza, come a Beirut. Lungo la Green Line (4,5 chilometri) – una denominazione quasi romantica per indicare nel centro città la zona di confine est-ovest dove per quindici anni la guerra civile tra cristiani e musulmani si è scatenata con tanta violenza – le faglie archeologiche, il tessuto storico e le sopravvivenze edilizie erano troppo importanti per procedere a un’avvilente tabula rasa.
Solidere, la società fondiaria e immobiliare incaricata della ricostruzione del Central District, se n’è resa conto subito. Alla fine del conflitto, il primo master plan del 1991, elaborato dall’architetto Henri Eddé, non rendeva giustizia alle preesistenze e venne quindi subito corretto con un secondo piano, del 1993, più sensibile alla salvaguardia dell’antico e al recupero dell’individualità vitale della zona. Nel frattempo, tuttavia, quello che restava dei suk (già in parte demoliti nel 1983) era stato raso al suolo nel 1992, e molte altre rovine erano state rimosse. Con le macerie era stata creata una penisola a nord, che aumentava il terreno edificabile ma modificava fortemente la naturale linea costiera.
Sono passati dieci anni: l’impatto che si ha ora con il Central District, un’area di 1.200.000 metri quadri, è quello di un puzzle che, a macchie, viene faticosamente riassemblato. Ci sono gli eleganti isolati filologicamente restaurati, intorno a Place de l’Etoile, dove negozi di lusso e ristoranti corrispondono ai desiderata di Solidere di creare un centro “per lo shopping e il divertimento”. In questi edifici in pietra giallo-rosata con alti portici, uffici e abitazioni sono palesemente indirizzati a una classe abbiente.
Ci sono aree in attesa di ripristino, con resti di muri ancora sforacchiati dai proiettili e invasi dalla vegetazione, o scheletri spettrali, come quello in cemento della Murr Tower, dove una volta si appostavano i cecchini. La grande, e un tempo nodale, Place des Martyrs è uno spiazzo informe, circondato da strade a veloce scorrimento: unico elemento di riferimento è l’ex cinema Opéra, degli anni Trenta, restaurato e occupato da un Virgin Megastore. Per il riassetto di questa piazza Solidere sta pensando a un concorso internazionale a inviti.
Ci sono poi i cantieri: quelli di recente recentemente terminati, come nel caso del restauro della moschea Emir Munzer, del periodo omayade e mamelucco, e quelli bloccati da anni, come i nuovi suk, disegnati da Rafael Moneo nel 1996 e fermi alla fase di scavo; due anni di ritardo per problemi normativi, relativi a quella che Angus Gavin, manager dell’urban development division di Solidere, definisce “la più grande concentrazione della città di negozi e attività ricreative”. Si aspetta un decreto speciale del Consiglio dei Ministri per la ripresa dei lavori. È un progetto focale per la rivitalizzazione del centro urbano, soprattutto per il significato di forte aggregazione sociale che questa struttura tradizionale riveste nei Paesi medio-orientali. Vicino ai suk di Moneo sorgeranno anche quelli dell’oro e dei gioielli, affidati a Kevin Dash, architetto concordemente apprezzato a Beirut per il nuovo edificio della Audi Bank, a pochi isolati di distanza. Le opere nel sottosuolo del grande impianto commerciale, incluso un parcheggio per duemila auto, sono già state realizzate e il primo lotto dell’edificazione sarà probabilmente consegnato alla fine del 2004.
C’è poi lo sterro del terreno di riporto sul fronte mare, un punto particolarmente delicato nel programma del master plan e ancora molto flessibile a variazioni. Oltre alle critiche sollevate da chi ritiene invasiva e puramente speculativa la modificazione del profilo marino, l’Autorità del Porto ha avocato a sé il controllo del primo dei due bacini di prossima realizzazione, costringendo così a una correzione del piano. Gli studi Skidmore, Owings & Merrill, Sasaki Associates e Parsons Brinckerhoff sono stati coinvolti nella stesura del progetto: per ipotizzare un parco e probabilmente un World Trade Center. Si parla addirittura dell’inserimento di un circuito da corsa di Formula 1, sullo stile ingegneristico di quello di Montecarlo. La protezione della nuova terra dall’acqua ha comportato una poderosa opera strutturale, con una diga in elementi di cemento prefabbricati e un trattamento del fondo marino su un fronte di un chilometro di lunghezza e 100 metri di larghezza per il frangimento delle onde.
I costi del Central District sono alti, ma gli investitori non mancano. Le infrastrutture potenziate garantiscono un valore particolarmente elevato all’area, direttamente collegata alla corniche che accoglie gli hotel di lusso e le spiagge per le vacanze degli arabi ricchi. A questo si aggiunge la strategia, non solo qualitativa, e la capacità di Solidere di attirare progressivamente le firme più prestigiose dell’architettura internazionale per alcuni landmark. Steven Holl sistemerà la passeggiata lungomare; Giancarlo De Carlo e l’egiziano Abdel Wahed Al-Wakil sono consultati per interventi residenziali nel quartiere ebraico Wadi Abu Jamil; Terry Farrell per un edificio commerciale e per uffici nel cuore storico del District; altri, come Jean Nouvel o Norman Foster, sono attualmente impegnati in studi preliminari. Per i terreni che la società vende ad altri investitori, “includiamo nel contratto di vendita, per i siti più importanti, una lista di dieci-dodici progettisti, selezionati con attenzione. Chiediamo all’acquirente che faccia riferimento a un nome dell’elenco o organizzi un concorso con almeno tre tra i progettisti indicati”, dice Angus Gavin. Per quanto riguarda la ‘normale’ edificazione, con basi tradizionali, Solidere fa riferimento a studi locali, cercando “di incoraggiare la generazione giovane degli architetti”. Qualche pastiche architettonico, comunque, qua e là lo si trova.
Fuori dalla gabbia dorata del Central District – dove difficilmente potranno tornare i vecchi abitanti e sicuramente non gli squatter liquidati dietro indennizzo – la capitale libanese vive la vita intensa e caotica che l’ha sempre connotata come uno dei centri più aperti del Mediterraneo orientale, con quel savoir vivre ereditato forse dal periodo del mandato francese. La crescita e densificazione della città non paiono soggette ad alcuna normativa urbanistica e la multiconfessionalità della sua popolazione (un milione e mezzo di abitanti) sembra riflettersi in una immagine urbana poliedrica, eclettica, ma in qualche modo coesiva.
Il Primo Ministro Rafik Hariri, in carica dal 1992 e attualmente a capo del suo quinto governo, è un abile uomo d’affari, molto vicino a Solidere. Attento alla scena internazionale, per la capitale si dimostra più propenso a sostenere grandi progetti d’immagine, come lo stadio o l’aeroporto, sovradimensionati, che ad affrontare una poco appariscente politica urbana. La sua Hariri Foundation, istituzione non profit creata nel 1979 per promuovere l’educazione dei giovani libanesi con generose borse di studio all’estero, nel dicembre del 1992 aveva annunciato l’intenzione di donare un milione di dollari per un progetto dell’Unesco intitolato “Aspetti storici della ricostruzione del centro città di Beirut”. Insomma, Beirut è un intricato affaire.
Un’occasione perduta. Assem Salam riflette sul futuro della popolazione, una volta che l’opera di ripristino del centro.
Con una storia che abbraccia più di duemila anni, il centro di Beirut – fino al 1975, data d’inizio della tragica guerra civile che ha devastato il Libano – è stato l’anima della città. Oggi è stato quasi completamente ricostruito, ma è difficile ormai pensarlo in questi termini. L’area oggetto della ricostruzione rappresenta la parte più antica della città: alcune zone risalgono al Medioevo, altre all’Impero Ottomano, fra la metà del XIX secolo e l’inizio del XX. Resti del periodo ellenistico sono ancora visibili in alcuni punti, mentre in altri sono stati sepolti dallo sviluppo della città medievale. Questa antica eredità aveva dato al luogo un’identità e un carattere che riflettevano la natura dei nuclei urbani del bacino del Mediterraneo. Nel suo lungo percorso storico, la città aveva assistito alla formazione di un tessuto sociale dinamico ed eterogeneo. Più di 130.000 persone vivevano o lavoravano su quest’area di 120 ettari, in una grande varietà di classi e condizioni sociali. Beirut si era via via ingrandita allontanandosi dal centro in due opposte direzioni: a ovest la zona musulmana, a est quella cristiana, ma il suo centro storico era rimasto il luogo d’incontro e di unione per le due maggiori comunità del Libano, che qui vivevano l’una accanto all’altra, oltre che punto d’appoggio per la rapida espansione urbana che ha accompagnato lo sviluppo della città negli anni Cinquanta e Sessanta.
Certo, la lunga guerra civile ha gravemente danneggiato il centro di Beirut: ma mentre i danni materiali sono stati causati dalla guerra, buona parte del suo degrado ha avuto origine non dai bombardamenti bensì dall’abbandono. La guerra ha costretto gli abitanti di Beirut ad allontanarsi, mentre la città veniva invasa dagli abusivi che qui confluivano dal sud del Paese, occupato da Israele. L’effetto più dannoso della guerra civile è stato la perdita del centro cittadino come terreno d’incontro per i due gruppi che prevalgono in Libano. Per circa sedici anni Beirut è rimasta una città divisa, sia fisicamente che culturalmente. Il prolungarsi della guerra civile ha quasi distrutto le fondamenta dello stato.
È terminata con una riconciliazione politica che ha portato i due gruppi ad accettare la riunificazione del Paese e a impegnarsi per rimarginare le ferite della lunga separazione. Dopo la fine della guerra, il processo di ricostruzione di Beirut è stato un tentativo di trasferire nella realtà concreta gli intenti dichiarati nel patto costituzionale di riconciliazione. I governi che si sono succeduti da allora hanno concentrato i loro sforzi per giungere a un rapido recupero delle infrastrutture della città, alla ricostruzione del tessuto urbano distrutto e al rientro dei profughi nelle loro case. Questo tentativo di contrastare l’omogeneizzazione della popolazione seguita alla guerra civile è stato il fondamento della strategia politica volta alla riunificazione del Paese. La ricostruzione del centro della capitale diventò dunque, simbolicamente, il momento più importante per ritrovare l’unità nazionale. Sempre, la ricostruzione di una città colpita dalla guerra offre l’occasione di migliorare la qualità della vita e di ammodernare il tessuto fisico della città stessa. La ricostruzione di una città che dalla guerra è stata divisa, oltre che danneggiata, rappresenta un impegno ancora più grande: trascurarlo può portare a un danno permanente per tutta la nazione. Se la guerra è un affare troppo serio per essere lasciato ai generali, la ricostruzione di una città distrutta dalla guerra non dovrebbe assolutamente essere lasciata nelle mani degli impresari e degli operatori immobiliari. Invece, la nuova Beirut è soprattutto una creazione di Rafic Hariri, developer e impresario edile che ha fatto fortuna in Arabia Saudita. Dal 1992 è Primo Ministro del Libano e sovrintende all’attuazione del piano per la ricostruzione del centro storico di Beirut, avendo al tempo stesso la maggioranza delle azioni di Solidere, la società privata responsabile del progetto. Per la sua visione della città, Hariri sembra essersi ispirato all’esperienza acquisita in Paesi “ad economia petrolifera” privi di tradizione urbana e architettonica.
Per una corretta valutazione del piano di ricostruzione del centro di Beirut, così com’è stato attuato, occorrerebbe riandare ai meccanismi usati per portarlo avanti, dal punto di vista costituzionale, legale, finanziario e sociale. Occorre citare alcune questioni essenziali che sono state ignorate, o piuttosto sacrificate, nel corso della ricostruzione. Una ricostruzione non può essere condotta nell’isolamento da tutto ciò che è intorno, senza pensare agli effetti che potrà avere sull’intera città. L’attuale piano di ricostruzione del centro di Beirut ha invece trascurato questo aspetto e si è posto arbitrariamente il limite costituito dall’anello stradale preesistente, a spese di aree altrettanto colpite e danneggiate, ma situate fuori dell’anello. Trasformato in una trincea di scorrimento veloce, questo confine agirà inevitabilmente come il fossato di un antico castello, isolando il patinato centro urbano dalle fasce esterne povere e svantaggiate. Qualsiasi tentativo di ricostruire una città medievale non dovrebbe ignorarne il significato urbano e sociale, né dovrebbe risparmiare gli sforzi per salvaguardarlo, a qualsiasi costo. Le memorie e la continuità culturale hanno un inestimabile valore per la storia dell’intera nazione, e il patrimonio urbano ne è la chiave di volta, specie in una città che ha già visto tante distruzioni.
Invece, nel corso dell’esecuzione del piano, è stato brutalmente demolito l’80% del vecchio ambiente costruito di Beirut, e sono state completamente eliminate le parti medievali e post-medievali, infliggendo un colpo fatale alla memoria della città e ai suoi duemila anni di storia. Ignorando la questione della salvaguardia e sacrificandola alla legge del profitto e della speculazione, si è privata irreparabilmente una città così particolare delle sue memorie e della sua identità. Il piano ha comportato lo spostamento di tutta la popolazione residente, senza diritto di ritorno, e ha così svuotato il centro dell’elemento umano che un tempo unificava la città. Oggi Beirut è più divisa che mai, e lo rimarrà probabilmente finché il carattere dei futuri residenti resterà indefinito. Questo, è ovvio, nuoce gravemente agli sforzi volti alla riconciliazione nazionale.
Con le sue raffinate infrastrutture, il nuovo centro urbano è fatto evidentemente per un pubblico di privilegiati, una discriminazione che sta creando notevoli tensioni sociali con le aree circostanti. Il centro antico aveva un rapporto tra superficie e volume costruito di circa 1:2; dopo le pesanti demolizioni questo è salito a 1:7. È assai dubbio che questo sia il metodo giusto per ridare vita al centro di Beirut, a causa degli effetti deleteri che certamente avrà sugli accessi preesistenti, sul sistema dei trasporti pubblici e sulle zone commerciali sorte nelle aree adiacenti. L’eccesso di densità sembra dettato più dagli interessi degli operatori immobiliari che dalle esigenze della pianificazione: la sua influenza negativa si nota già in alcune aree lungo il mare, attualmente in via di sviluppo.
Una rete di viali organizzata e ‘irreggimentata’ – ampie carreggiate fiancheggiate da alberi – ha sostituito il tessuto urbano medievale di Beirut. Agli operatori vengono offerti lotti regolari, con infrastrutture sofisticate e indici generosi di densità edilizia. Finora, solo due piccole aree del vecchio centro sono state conservate e recuperate. Una risale al periodo Ottomano, l’altra agli anni Trenta e Quaranta del Novecento. Una sta lì, muto testimone della morte della città, e serve come fondale a un’improbabile piazzetta destinata soprattutto al cibo e alla ristorazione. L’altra, ricostruita in finto stile locale, viene venduta a prezzi esorbitanti, suddivisa in abitazioni per giovani rampanti. Gli aspetti ingegneristici del piano possono forse colpire, ma dal punto di vista urbanistico si tratta in realtà di un’esercitazione priva di qualsiasi originalità. Manca di freschezza, di spontaneità e di sorpresa, cioè degli elementi che avrebbero potuto far rivivere la memoria del vecchio centro. Sarebbe stato meglio adeguare il progetto a una scala umana, per creare un ambiente con radici mediterranee, invece di puntare su quel tipo di insulso sviluppo che potrebbe andar bene per Miami, ma che si sta ampiamente diffondendo nei ricchi Paesi del Golfo.
La ricostruzione di un’area sensibile come quella del centro di Beirut non avrebbe dovuto essere portata avanti senza una politica pubblica chiara e attentamente sorvegliata, rispettosa della storia del sito e del ruolo futuro del Libano. Eclissato da sedici anni di guerra, questo ruolo resta oggi indefinito, è minacciato dall’incertezza politica dominante e dal rapido sviluppo di molti Paesi vicini, dove altre città cominciano a contendere a Beirut la sua antica posizione di metropoli del mondo arabo.
Invece di attuare un progetto speculativo di così ampie proporzioni, sarebbe stato molto meno rischioso adottare un criterio più flessibile, ma a Beirut si è optato per il tutto o il niente, invece che per un piano più organico, capace di adattarsi alle circostanze future. È un gioco d’azzardo basato su una visione adatta forse agli artificiali Paesi del petrolio, ma non certo alla specificità di una nazione di antica tradizione come il Libano.
Quando si pensa al destino infelice di Beirut, è inevitabile paragonare questa città a Barcellona. Beirut ha perduto il suo vecchio centro, Barcellona l’ha invece conservato con il Barrio Gotico. Beirut ha perduto la vecchia Piazza dei Martiri, Barcellona l’ha conservata nelle Ramblas. Beirut ha perduto il collegamento storico che aveva con il mare, cancellato da 60 ettari di discariche. E soprattutto ha perduto i suoi abitanti, le persone di cui nessuna città può fare a meno, per esistere veramente.