Marinella Senatore, (Cava de’ Tirreni, 1977) è l’autrice di uno degli eventi inaugurali più attesi di Manifesta 12 Palermo. Se uno degli obiettivi principali della biennale d’arte è quello di interagire con la città e la sua società, allora la performance Palermo Procession è sicuramente l’iniziativa meglio riuscita. La processione ha attraversato le vie e i vicoli del centro storico e coinvolto oltre 300 performer non professionisti. Il risultato è una festa che ha coinvolto tutti, anche gli scettici rispetto al mondo dell’arte contemporanea.
Manifesta 12. Marinella Senatore e la coreografia di una città
Intervista all’autrice della performance “Palermo Procession”, uno degli eventi più intensi delle giornate inaugurali della biennale d’arte nomade.
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- Salvatore Peluso
- 12 luglio 2018
- Palermo
Parlaci del lavoro di coinvolgimento che ha preceduto Palermo procession.
Ogni comunità cittadina è formata da mille frammenti. Sei mesi fa ho iniziato a mappare le realtà interessanti della città. Mi sono fatta raccontare Palermo da chi la vive, provando a superare le idee preconcette. Mi piace interagire con persone che hanno qualcosa da dire, da dare o da fare, e che sentono l’urgenza di esprimersi. Molto raramente questi sono professionisti. Sviluppo progetti di partecipazione pubblica da ormai 15 anni e ho lavorato in moltissimi Paesi, con culture, costumi e idee completamente differenti. Sapevo che non avrei avuto una formula precisa e non voglio imporre il mio punto di vista, altrimenti il mio non sarebbe un lavoro site specific né di arte pubblica. Preferisco il dialogo, che ovviamente non è sempre scevro da conflitti. Ma questi esistono e si risolvono all’interno delle comunità. La processione diventa un’occasione di confronto e di coesione.
La città è stata una partecipante attiva della processione: la sua architettura e le sue barriere, le meraviglie e le brutture. Tutto.
Partecipando alla parata ho pensato fosse un misto tra Santa Rosalia e il Primo Maggio, tra devozione e partecipazione. Quali sono le feste popolari e le processioni che ti hanno ispirata?
Mi piace molto la combinazione. In realtà i miei riferimenti principali vengono da lontano, dato che ho studiato molto all'estero. Ho vissuto e studiato i carnevali caraibici, processioni che mettono insieme musica, costume e impegno sociale, in cui la gioia di vivere è un fattore politico. Sono stata anche in Africa, dove ho visto le danze post-coloniali, che sono momenti molto intensi di emancipazione collettiva. Conosco tutte le danze di comunità della tradizione italiana, ma seguo anche parate politiche o militari. Mi interessano tutti i rituali che hanno a che fare con il movimento delle persone. Ovviamente tutti quanti a Palermo mi hanno parlato di Santa Rosalia, che considero una delle coreografe più importanti della storia, alla pari di Martha Graham o Pina Bausch.
Quali sono gli elementi dello spazio pubblico che ti hanno ispirata nella scelta del percorso?
Io non decido mai le cose a priori. Ho lasciato che il percorso venisse stabilito dai partecipanti. Abbiamo parlato molto di come interagire con la strada e come le sue parti potessero essere usate in modo espressivo. La città è stata una partecipante attiva della processione: la sua architettura e le sue barriere, le meraviglie e le brutture. Tutto. I percussionisti hanno suonato saracinesche e i cassonetti dell’immondizia; i ragazzi del parkour si sono appesi nelle recinzioni e sulle chiese, le ballerine di danza classica usavano le ringhiere come fossero una barra, le pole dancer hanno ballato usando i cartelli stradali…
Uno degli aspetti più rilevanti della tua opera è la composizione tra persone diverse, la formazione di un nuovo tessuto sociale. Facendo questo credo che tu sia riuscita a creare una vera narrazione popolare e contemporanea della società, un racconto genuino delle pulsioni e delle necessità di Palermo. Essendo la processione una disposizione lineare, diventa fondamentale chi metti prima e chi dopo. Ci parli delle tue scelte in questo senso?
Cerco di mischiare linguaggi a prima vista dissonanti – come il parkour con la musica classica o i bonghi con le majorette. Voglio far raccontare alle persone la loro storia e la loro verità, con tutto quello che comporta: le incertezze, le paure o l’iniziale disagio nel trovarsi con persone sconosciute. Il mio ruolo è anche quello di valorizzare le singole individualità. Per me i partecipanti hanno importanza in quanto persone e non in quanto massa. Parlo e ho un rapporto schietto con tutti e li preparo all’imprevisto, al cambiamento improvviso e alla flessibilità. Ad esempio in testa alla parata c’era un gruppo di ciechi a cui ho detto: “sappiate che se sbagliate strada noi vi veniamo dietro”. Anche se per un periodo molto limitato per me è importante che si viva la loro verità e non un’altra. Non mi interessa accompagnare il cieco con la mano. Queste interazioni e collaborazioni inaspettate sono solo piccole mutazioni nel tessuto sociale. Noi artisti non cambiamo il mondo: abbiamo la responsabilità di provocare pensieri e generare piccoli movimenti.