Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1034, aprile 2019.
Per Marina Caneve la fotografia è quasi sempre uno “strumento di osservazione autonomo in un processo di ricerca interdisciplinare”; ma all’interno di questo sistema metodologico, l’idea di documento propria del medium è posta essa stessa a scrutinio, attraverso un’indagine visiva che è al contempo artistica, archivistica e scientifica. Secondo questa logica, una fotografia di paesaggio è una volta di più non solo la testimonianza di qualcosa che è accaduto nel passato, ma anche, sovversivamente, un modo per prevedere cose che non si sono ancora verificate e, monito a quelli che verranno, per prevenire eventuali disastri futuri. Quando inseriti in un’indagine a lungo termine sulla percezione del rischio idrogeologico nelle Dolomiti, i segni lasciati da una frana sul tronco di un albero ancora vivo diventano allora i caratteri distintivi di un progetto che mette criticamente in dialogo estetica ed etica, ma anche, sotto sotto, cultura e natura. In questo caso a parlare è letteralmente ciò che manca, l’assenza dell’evento, in primo piano grazie all’isolamento, al taglio e quindi alla parziale astrazione del soggetto principale. Realizzata in collaborazione con il geologo Emiliano Oddone e l’antropologo Annibale Salsa, e arricchita da un testo di Taco Hidde Bakker, Are They Rocks or Clouds? è una serie fotografica dalle molte sfaccettature, e beneficia di quell’indeterminatezza che, da un lato, è alla base della poesia, e dall’altro è il limite della scienza, senza però soccombere né all’ambiguità dell’una né alla presunzione dell’altra. Perché, per citare lo storico della scienza D. Graham Burnett, “le conclusioni, come regola, dovrebbero essere trattate con sospetto”.