Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1036, giugno 2019
Le tecnologie d’avanguardia, dalla stampa 3D alla fabbricazione robotizzata, sono già state adottate dall’industria delle costruzioni in tutto il mondo. Questi strumenti, apparentemente futuristici, comunque, si radicheranno nella vita quotidiana come realtà tutt’altro che bizzarre. Perfino le tecnologie più radicali s’integreranno nelle abitudini quotidiane come metodi pratici per la riparazione fai-da-te e la ristrutturazione su piccola scala.
In questo processo, l’innovazione digitale può favorire un ritorno all’etica premoderna della condivisione comunitaria e del lavoro collettivo, dove i cittadini mettono in rete le loro stampan- ti per produrre insieme nuovi oggetti oppure riutilizzano le macerie per collaborare a progetti futuri.
Questi comportamenti costituiscono l’infrastruttura sociale tramite la quale gli utensili avanzati saranno felicemente integrati nella nostra vita e sono parte trascurata, ma d’importanza vitale, del discorso progettuale odierno. Il futuro della città, si può dire, sarà realizzato insieme con i nostri amici e i nostri vicini.
Prendiamo per esempio, Star Lounge, progetto recente di Emerging Objects, studio di progettazione di Berkeley fondato da Ronald Rael e Virginia San Fratello. Il nome Star Lounge, il “salotto delle stelle”, sottolinea esplicitamente il contesto sociale della stampa 3D.
L’impostazione di Rael e San Fratello prevede l’uso di una batteria di stampanti da scrivania, ciascuna con il compito di realizzare un piccolo pannello modulare pronto per il montaggio. I due hanno descritto questa impostazione come l’introduzione di una BotFarm, in cui il prodotto individuale di ciascuna stampante sarebbe, in realtà, privo di valore ma, insieme con gli altri, dà luogo a una nuova tecnica costruttiva diffusa.
La forza non è solo nella scala, ma anche nella diffusione sociale.
Star Lounge porta con sé tutto un mondo d’implicazioni, relative al modo in cui dei vicini potrebbero nel prossimo futuro collaborare per riparare o realizzare un’architettura vernacolare. Il lavoro di Emerging Objects può essere considerato un prototipo sociale di come le comunità produrranno architettura attuando una condivisione tecnologica.
Come mi ha spiegato Rael, Emerging Objects ha scoperto che, in molti casi, i limiti tecnici di stampanti differenti già richiedevano un’organizzazione distribuita, a rete: la stampante di un laboratorio, per esempio, può gestire un solo specifico materiale o produrre lavori a una scala particolare, mentre un altro laboratorio, a qualche isolato di distanza o addirittura in un’altra città, può gestirne un altro. Insieme possono produrre i componenti necessari per quella che potremmo definire un’architettura emergente.
Il montaggio di un edificio, invece, diventa un evento sociale profondamente coreografico, che combina prodotti realizzati su piccola scala da gruppi differenti.
Mentre la tecnologia di stampa 3D adatta all’architettura rimane proibitivamente costo- sa nella gestione e nella manutenzione da parte delle comunità a basso reddito di oggi, una specie di “Legge di Moore dell’architettura” prevede che apparecchiature di stampa adeguate all’architettura saranno accessibili alle comunità locali a basso reddito in tempi brevi. Le economie di manutenzione locali funzioneranno non diversamente da Star Lounge di Emerging Objects. Si pensi a un impianto di stampanti 3D in rete che produca in serie in una dozzina di abitazioni sparse, realizzando piccoli componenti per vicini e amici.
Un po’ come cucire nuove toppe per un vecchio maglione, questa concezione di manutenzione spaziale suggerisce che l’ambiente costruito, nell’era della stampa 3D, non richieda di essere reinventato da zero. Anzi, si trasformerà in modo incrementale, giorno per giorno, e perfino secondo le singole necessità.
Per il gruppo Matter Design la cosa si può spingere ben oltre: utensili urbani futuristici richiederanno comportamenti umani antichi. Il lavoro di Matter Design, società di ricerca e produzione con soci nel Michigan e nel Massachusetts, suggerisce che la chiave del futuro potrebbe essere celata nelle nebbie della storia della città. Il loro progetto Cyclopean Cannibalism (“Cannibalismo ciclopico”), per esempio, unisce la fabbricazione geometrica ad alta tecnologia con la manualità artigianale premoderna.
Il gruppo – sulla base delle ricerche di Brandon Clifford e Wes McGee, responsabili dello studio – usa il termine ‘ciclopico’ per alludere ai grandi blocchi da costruzione realizzati in forme prismatiche geometricamente irregolari.
Questi elementi vengono poi sovrapposti o incastrati tra loro in muri simili a puzzle che richiamano deliberatamente l’antica ingegneria degli Inca. Il lavoro che ne risulta combina ricerca tecnica, geometria modulare e riuso intelligente di materiali edili di scarto, tenendo sempre presente l’apprendimento di nuove (o, meglio, antiche) forme costruttive da parte di comunità svantaggiate.
Come Clifford mi ha spiegato, la loro ricerca – che mescola in parti uguali archeologia e in- gegneria strutturale – ha rivelato ben presto che gli Inca non si rifornivano di nuove pietre ogni volta che avevano l’esigenza di costruire uno spazio architettonico: praticavano invece quella che Clifford definisce una “tecnica di selezione” per scegliere massi isolati e non utilizzati oppure, semplicemente, ‘cannibalizzavano’ edifici esistenti.
In realtà, aggiunge Clifford, “dall’epoca dell’industrializzazione siamo l’unica civiltà che non cannibalizza la propria architettura. Per esempio, la Basilica di San Pietro prese le sue pietre dal Colosseo. Un tempo era semplicemente una pratica normale.
Ma oggi l’industria edilizia dipende dai materiali nuovi. Ci piace standardizzare le cose e sapere che cosa c’è dentro”.
La dipendenza dai materiali standardizzati, ipotizza Clifford, non solo incide sulle possibilità formali del progetto d’architettura contemporaneo, ma ha anche creato uno scenario socio-economico dove l’architettura d’avanguardia è curiosamente così standardizzata da non essere accessibile a tecniche costruttive quotidiane vernacolari. Le persone non possono let- teralmente permettersi di costruirsi la propria casa con materiali moderni.
Invece hanno facile accesso a materiali non standard: macerie architettoniche o componenti e parti usate in precedenza. “Nel contesto della città di oggi”, avverte il gruppo, “stiamo generando una quantità di rifiuti senza precedenti. C’è una crisi incombente che riguarda il modo di trattare le macerie, in particolare quelle degli edifici”. Il montaggio ciclopico – la cannibalizzazione delle macerie architettoniche per nuove strutture – potrebbe fare la differenza.
Clifford ha riportato la mia attenzione sugli Inca per dimostrare come perfino la spietata cultura del progetto digitale di oggi abbia parecchio in comune con antiche tecniche di costruzione: “Il modo in cui lavoravano gli Inca è molto più simile al modo in cui operiamo oggi attraverso gli algoritmi digitali.
Loro lavoravano semplicemente attraverso regole logiche in grado di adattare forme casuali per realizzare nuove architetture. Per noi questo assomiglia all’architettura digitale più di certi lavori di Mies”.
“Prima di tutto è un modo di pensare”, aggiunge Wes McGee, socio di Matter Design. McGee suggerisce che il loro processo di montaggio architettonico “a puzzle” vada considerato una “azione di processo”, una sequenza precisa in cui “la comprensione di un particolarissimo ordine di montaggio è la chiave per comprendere come tutto sta insieme”.
L’architettura diventa una sequenza, un algoritmo, un gruppo di istruzioni, non diversamente dall’iniziativa modulare sociale Star Lounge di Emerging Objects.
Per Clifford, il progresso può consistere proprio nel guardare al passato: non alla nostalgia per l’Art & Crafts, ma più oltre, in profondità nella preistoria dell’archeologia, per trovare nuove idee per il futuro della fabbricazione. La progettazione digitale può trarre ispirazione pratica dagli antichi modi di montaggio, così come anche gli stessi progettisti e costruttori possono scoprire espedienti e utensili nel passato premoderno.
Geoff Manaugh è un critico di design con sede a Los Angeles e autore del libro più venduto di The New York Times, A Burglar’s Guide to the City (2016).
Immagine di apertura: Star Lounge (2015) di Emerging Objects è una struttura composta di elementi esagonali di PLA, un polimero termopalstico derivante da zuccheri naturali. Ciascun colore esprime precise qualità strutturali e ciascun blocco è numerato per facilitare l’assemblaggio. Foto Matthew Millman Photography