Il 2021 è stato definito in Italia “l’anno del diritto alla riparazione” in una conferenza stampa di gennaio. Dal primo marzo è in vigore il nuovo regolamento europeo sull’ecodesign che obbliga i produttori di beni elettronici a garantire la loro riparabilità per almeno sette anni. Questi risultati sono stati possibili soprattutto grazie alle pressioni del Right to Repair movement. L’idea di un design che si sottragga a un controllo industriale troppo pervasivo in Italia si era già sviluppata negli anni Settanta, soprattutto grazie al lavoro teorico di uno dei padri del design italiano: Enzo Mari. A confermarlo è Ugo Vallauri, co-fondatore a Londra di Restart Project e membro del Right to Repair Europe: “Sicuramente in Italia c’è un fattore importante: dal punto di vista produttivo e del design esiste una tradizione che spiega perché ci sia una così forte sensibilità su questi temi”.
Da Enzo Mari al diritto di riparare: sappiamo ancora progettare in autonomia?
Il Right to Repair movement e il lavoro teorico di Enzo Mari sembrano lontani nello spazio e nel tempo, ma entrambi sono espressione della lotta per cambiare il modo in cui viene disegnata la società.
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- Nicolò Tabarelli
- 07 aprile 2021
Quest’anno a Milano si sono tenute due mostre dedicate a Enzo Mari. La prima è un remake di un’esposizione del 1973, “Falce e martello - Tre dei modi in cui un artista può contribuire alla lotta di classe”, alla Galleria Milano, conclusasi a fine marzo 2021; l’altra è “Enzo Mari curated by Hans Ulrich Obrist with Francesca Giacomelli”, in corso alla Triennale di Milano fino al 18 aprile 2021. Da entrambe emerge con forza l’idea politica e progettuale di Mari che Bianca Trevisan, curatrice di Galleria Milano, spiega con le parole di Carla Pellegrini: “Non sono d’accordo di scindere la sua ricerca artistica da quella dei manifesti, dalle sue idee politiche o dalla sua attività di designer. Sono tutti aspetti di un personaggio complesso, di una ricerca di linguaggio”. Il lavoro di Mari in cui questi aspetti si presentano più chiaramente come un nucleo compatto è Proposta per un’autoprogettazione, operazione critica che consiste nell’offrire istruzioni per la realizzazione di mobili e disegni progettuali a “chiunque ad esclusione delle industrie o dei commercianti”.
Anche se il lessico con cui se ne parla oggi è molto meno ideologico e meno incisivo di quello di allora di Mari e colleghi, le intenzioni sono tuttora avvincenti. Nel 1974, Argan scriveva su L’Espresso: “Mari non ha il mito del buon selvaggio né pratica culti tribali; ma forse pensa che si vive nelle megalonecropoli del neocapitalismo come Robinson nella sua isola. Per sopravvivere dovette cominciare a costruire utensili con cui costruirsi un ambiente per poterci vivere. Mari ha ragione, tutti devono progettare: in fondo è il modo migliore per evitare di essere progettati”. Il ragionamento che Mari portava avanti era quello della costruzione e del disegno di mobili che, senza una “sfiducia manichea nei confronti della macchina”, né confondendo “gli attuali rapporti di produzione inerenti alla macchina”, si svincolassero dalla logica del consumismo e fossero già durante il capitalismo i mobili del socialismo. Il ritorno alle tecniche costruttive più elementari (quelle della carpenteria, ad esempio) diventava così la massima proiezione verso il futuro.
Nel video recente che presenta la sua mostra in Triennale, Mari conferma quello che già pensava negli anni Settanta. In mezzo alle invettive, le sue intenzioni politiche e assieme progettuali si rivelano quando afferma che non ha mai pensato di “realizzare oggetti stupidamente necessari, ma di realizzare modelli di una società diversa, di un modo di produrre diverso”.
L’ideale di una società diversa emerge ancora più chiaramente nel commento che rilascia per la monografia del 1983, Enzo Mari di Carlo Quintavalle (ed. CSAC dell'Università di Parma). Racconta la depressione in cui versa da quando ha capito l’ingenuità “dell’approccio di buon disegno a prezzi bassi”: il pubblico a cui sono diretti questi mobili non li acquista perché non li riconosce come parte del sistema culturale. Mari, che per tutta la vita si è sentito incompreso dal pubblico, ha donato i suoi archivi al Comune di Milano a patto che non venissero aperti per quarant’anni: solo allora il suo lavoro risulterà comprensibile. Quello che azzarda Mari con Proposta per un’autoprogettazione è il tentativo, sulla falsariga di quello che propone Marx sui mezzi di produzione, di sottrarre il controllo di quelli che potremmo chiamare “mezzi di progettazione” alle industrie e darli in mano alle persone.
Una terza categoria di “mezzi” è oggi sempre più a rischio, quella dei “mezzi di riparazione”. Il movimento per il diritto alla riparazione ha preso slancio negli anni Dieci del duemila. Sul sito del movimento in Europa si legge che “i prodotti non dovrebbero essere disegnati solo per svolgere dei compiti, ma anche per essere riparati ogni volta che ce n’è bisogno. Per fare in modo che vengano costruiti prodotti che siano facili da riparare abbiamo bisogno di pratiche che facilitino il disassemblaggio”.
Ugo Vallauri, attivista per il diritto alla riparazione, si batte affinché i prodotti elettronici siano facili da riparare per chiunque. I pilastri del movimento sono quattro: 1) il buon design dei prodotti 2) che i manuali per la riparazione siano disponibili per tutti 3) che i consumatori siano informati di quanto un prodotto sia riparabile 4) che vengano abbattute le barriere di software. Allo stato attuale, siamo prossimi a un monopolio sulla riparazione: “in passato chi riparava aveva accesso agli schematici per poter capire come funziona ogni singolo componente e poterlo aggiustare”.
Quello che colpisce dell’analogia tra Enzo Mari e il movimento per il diritto alla riparazione è che se leggiamo i primi tre pilastri su cui si fonda il Right to Repair (buon design, disponibilità dei manuali, consapevolezza dei consumatori) ritroviamo le motivazioni che avevano spinto Mari a lavorare alla sua Proposta per un’autoprogettazione. Educare le persone al buon design tramite la disponibilità dei progetti per sottrarsi a quello che Mari chiamava “lavoro alienato per produrre danaro”. I toni sono diversi, la formazione e il lessico di Mari sono decisamente marxiani mentre la strategia di Right to Repair si basa sulla pressione verso le istituzioni e sull’idea dell’economia circolare, ma i punti di contatto sono molti. Vallauri stesso conferma “è interessante come l’accesso ai pezzi di ricambio così come alla manualistica, tutt’altro che universale, in questo momento sia un segno del potere enorme che ha chi produce. Per questo è giusto ragionare in termini di potere e di mancanza di potere da parte di chi acquista”.
Se già nel 1974 Argan parlava di neocapitalismo forse bisognerà aspettare il 2060, quando verranno aperti gli archivi di Mari, per vedere se a vincere saranno stati gli ideali di un design più libero o una nuova mutazione del capitalismo. Nel frattempo però c’è un’intera generazione di designer e creativi che deve riprendere in mano le domande che si poneva Mari, allargarle alle sfide del presente, e saldare la scissione tra la ricerca artistica e l’elaborazione di una coscienza politica. Solo così potrà nascere una nuova forma di attivismo nel design italiano.
Immagine di apertura: Enzo Mari, model 1123XD dalla sua Proposta per un'autoprogettazione, 1974. Oggi prodotta da Artek.
Immagine di anteprima: foto Anton Maksimov juvnsky su Unsplash