“Ma quanti soldi ci mette Cattelan?”. Quando decisi di uscire allo scoperto, rivelando che l’idea del Crepaccio, la vetrina espositiva “presa a prestito” da una trattoria milanese, che dirigevo sotto anonimato da qualche tempo, era nata durante un pranzo col Maurizio da Padova, qualcuno mi fece questa domanda.
Integrity e commitment
Il mondo dell'arte si è trasformato in uno dei territori più spietati del turbocapitalismo contemporaneo. Ma qualcosa sta cambiando.
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- Caroline Corbetta
- 30 ottobre 2018
Il suddetto interrogativo mi stupì allora e mi fa riflettere ancora. Non tanto perché Cattelan non aveva messo un euro nel progetto, ma perché rese lampante quanto fosse difficile, in un mondo dell'arte influenzato dal mercato, concepire l'esistenza di uno spazio basato solo sullo scambio di professionalità, tempo e networking. Il Crepaccio, anche oggi che ha spostato la sua attività su Instagram, è una delle tante oasi avulse da logiche commerciali che spuntano sempre più spesso nella landa affaristica che è diventato il sistema dell’arte; è uno dei molti e disparati progetti che riesce a preservare la propria identità sperimentale e indipendente grazie alla gratuità o ad altre categorie che stanno, pian piano ma inesorabilmente, tornando alla ribalta come redistribuzione e filantropia. Il no profit sembra essere l’anticorpo che il sistema dell'arte sta producendo per reagire all’implacabilità delle derive mercantili che lo hanno trasformato – col suo stesso benestare – in uno dei territori più spietati del turbo capitalismo, capace di generare un flusso enorme di denaro; ma sempre meno valore.
Qualcosa, però, sta cambiando: si comincia a discutere pubblicamente di quello che fino a poco tempo fa era noto ma indicibile. Per esempio, lo scorso giugno, il T Magazine del New York Times ha pubblicato una conversazione in cui due decani tra gli art dealer come Sean Kelly e Paula Cooper denunciano la supremazia aggressiva di fiere, case d’asta e delle cosiddette “corporation gallery”. Segni di resistenza nei confronti di questa egemonia fondata sul potere economico si verificano anche all’interno del circuito stesso delle gallerie. Come Condo, iniziativa non profit che propone un modello commerciale alternativo alle fiere applicando la sharing economy all’arte organizzando la condivisione degli spazi delle gallerie nelle varie città in cui è presente la sua piattaforma. Cosi, per capirci, una galleria di Bruxelles può presentare i propri artisti all’interno di una galleria di New York con ovvi reciproci benefici. Lanciata nel 2016 a Londra, oggi si tiene anche a New York, Mexico City, San Paolo e Shanghai.
Il no profit sembra essere l’anticorpo che il sistema dell'arte sta producendo per reagire all’implacabilità delle derive mercantili che lo hanno trasformato – col suo stesso benestare – in uno dei territori più spietati del turbo capitalismo.
Altri segnali incoraggianti arrivano dalla capitale britannica nonostante nel corso del ventennio pre-Brexit si sia trasformata nella città ideale di mega-ricchi globali e perciò piazza ideale per giga-gallerie e super-fiere. Per l’italo-britannico Simon Moretti, artista e curatore, la nuova energia si autoorganizza nelle pieghe del sistema facendo di necessità virtù: “Diverse gallerie giovani o project space hanno chiuso a causa del monopolio delle fiere. Questa riduzione di possibilità espositive non ha certo soppresso la necessità da parte degli artisti di mostrare il proprio lavoro perciò alcuni di loro stanno usando i loro studi anche come spazi espositivi. David Noonan, per esempio, ha creato Mackintosh Lane, non profit che promuove per lo più giovani. E un big come Yinka Shonibare fa regolarmente progetti con il suo Guest Projects”.
Sempre da Londra si dichiara ottimista Valeria Napoleone, collezionista, secondo cui le cose stanno cambiando e in fretta: “Ritengo che siamo a un bivio: da una parte c’è il mercato dell’arte becero e dall’altra il mondo dell’arte con persone che lavorano con integrità e passione. Tra questi due ambiti si stanno tracciando dei confini. Personalmente sono molto attenta a con chi mi relaziono, dove compro e chi compro. E quando sostengo progetti espositivi o pubblicazioni con la mia attività filantropica, spesso non fanno parte della mia collezione per evitare conflitti d’interesse. Tanti collezionisti che conosco si stanno tirando fuori da questo sistema dove ogni giorno spunta un art consultant che fino a ieri si occupava di finanza…”.
Ripetendo le parole integrity e commitment come un mantra, Valeria Napoleone ha deciso di rafforzare la sua attività filantropica con l’associazione Valeria Napoleone XX con cui idea e supporta personalmente progetti per artisti giovani e mid-career – quelli che soffrono di più, secondo lei, perché non hanno nemmeno il fascino della novità dalla loro – in collaborazione con istituzioni autorevoli come l’Institute of Fine Arts della NYU.
Le fa eco Cristiano Raimondi, curatore del Nouveau Musée National de Monaco e vice-presidente della neonata associazione no profit Società delle Api che, partendo dalla “disillusione per le derive quasi banditesche del mercato in un sistema dove gli opinion leader non sono più gli intellettuali ma gli operatori economici”, sottolinea la necessità di azioni di resistenza basate sul concetto di redistribuzione. “Con la Società delle Api mettiamo a sistema l’attività filantropica di Silvia Fiorucci-Roman, collezionista e presidente della società. Con progetti espositivi, residenze e pubblicazioni disseminate nel bacino del Mediterraneo puntiamo a costruire un hub interdisciplinare che possa creare lavoro per artisti, artigiani, designer e altri soggetti culturali”.
L’interdisciplinarietà è una caratteristica anche di Topical Cream, progetto paradigmatico delle nuove opportunità di visibilità per artisti emergenti e ricerche sperimentali offerte da Internet e Instagram. Felix Burrichter, creatore di PIN-UP rivista di “intrattenimento architettonico” sempre informatissimo sulle nuove tendenze, ne parla in toni entusiastici. “E’ una sorta di Kunsthalle virtuale inserita in una rivista radicale. Uno spazio online gestito da donne per artiste e artisti gender-nonconforming con una visibilità relativamente marginale, che esiste al di fuori del solito (spesso patriarcale) circuito di gallerie commerciali”.
Siamo a un bivio: da una parte c’è il mercato dell’arte becero e dall’altra il mondo dell’arte con persone che lavorano con integrità e passione. Tra questi due ambiti si stanno tracciando dei confini.
E le istituzioni pubbliche come si innestano in questa piccola-grande rivoluzione in atto? A oggi i musei si presentano troppo spesso come location in affitto appaltate a società che producono mostre il cui scopo primario è vendere più biglietti e cataloghi possibile, pertanto offrono al grande pubblico mostre che assecondano il loro gusto. O ancora, senza che i visitatori ne siano informati, gallerie private finanziano mostre dei propri artisti nei musei per evidenti scopi promozionali e speculativi a cui le istituzioni prestano il fianco più o meno consapevolmente. Ma ci sono anche spazi di frontiera che continuano a provare a offrire un servizio pubblico come la Tensta Konsthall aperta a fine anni Novanta in uno dei sobborghi più multietnici e disagiati di Stoccolma. Il suo programma parla il lessico trendy delle ricerche internazionali e, allo stesso tempo, dà spazio a workshop con artisti locali coinvolgendo studenti e bambini del quartiere. Inoltre, la gestione della sua caffetteria è stata appaltata a cittadini di origine eritrea: così il multiculturalismo da teoria diventa realtà quotidiana che arricchisce l'esperienza del mangiare. L’ingresso è gratuito, circa il 60% dei finanziamenti sono pubblici e le difficoltà tantissime.
“Nonostante la loro funzione critica, queste istituzioni sono spesso sottofinanziate e le loro esperienze ignorate. Perché?”, si chiede, senza trovare una risposta, la direttrice Maria Lind. Il tema è complesso.
Senz’altro, alle nostre latitudini, l’istituzione pubblica per l’arte va ripensata dalle sue fondamenta. Deve, prima di tutto, ritrovare un senso di servizio civico anche riallacciando relazioni con la comunità artistica del suo territorio e parlando, allo stesso tempo, un linguaggio realmente internazionale e non banalmente esterofilo. A Milano, città dove in questo momento sembra esserci tutto, uno spazio del genere manca. Chiamiamola Kunsthalle finché non ci sarà un nome per un nuovo modello di spazio pubblico per l’arte consacrato alla crescita culturale della collettività. Uno spazio che non si crogioli nel (dis)valore blasé della marginalità ma che sappia appassionare un pubblico trasversale.
Intanto torniamo dove siamo partiti con una frase del gallerista Sean Kelly che è tanto semplice quanto fondamentale: “Nessuno qui sta dicendo che non vuole guadagnare. Il punto è quanti soldi hai bisogno di fare e come li fai”.
La versione integrale di questo testo è stata pubblicata nell'edizione cartacea di DomusPaper, allegato a Domus 1028, ottobre 2018.