Poco dopo l’inaugurazione del Padiglione Italia, Davide Borsa esordisce con un post divertito sul sempre incombente rischio della nazionalimpopolarità: “Il Pandiglione italiano è a rischio di estinzione, si riproduce solo una volta all’anno in una zona umida protetta, disturbato da frotte di visitatori. Di carattere scontroso e timido, assume livree diverse a seconda di quello di cui si ciba, solitamente resti e avanzi; da qui la sua importante funzione ecologica a tutela della biodiversità”. A stretto giro il curatore Davide Tommaso Ferrando apre il fuoco dal suo trabiccolo ormeggiato a Punta della Dogana, sede temporanea dell’Unfolding Pavilion da lui curato alla Biennale di Architettura 2021: “Progettare una mostra che non si capisce equivale a progettare un edificio che non sta in piedi”. Voce critica di “Comunità Resilienti” – titolo della mostra del Padiglione Italia curato da Alessandro Melis –, Ferrando continua: “Ben vengano la sperimentazione, l’intersezionalità, la transdisciplinarietà, la visionarietà, la coesistenza, l’exaptation, la vitalità […] ma se due anni di lavoro si risolvono in un’alzata di coppa dei vincitori, messa in scena davanti a un pubblico vagamente confuso, allora qualcosa è andato storto”. Il caos del Padiglione Italia viene spiegato come “parte del concept” e Ferrando continua, “Mi dispiace che nemmeno questa volta, nel più sperimentale dei padiglioni Italia, se così si può dire, ci sia stata un’unghia di sperimentazione in campo curatoriale”. Esplode la bagarre, monta un acceso confronto tra estimatori e detrattori che arriva a coinvolgere, tra gli altri, Emanuele Piccardo, Emmanuele Jonathan Pilia, Luigi Manzione, Davide Tudor Munteanu, ripreso e approfondito poi in varie testate. Riportiamo il confronto avvenuto “a caldo” tra Davide Borsa e Alessandro Melis in merito ad alcuni dei contenuti del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia 2021.
Alessandro Melis risponde alle critiche al suo Padiglione Italia
Un confronto aperto tra Davide Borsa e Alessandro Melis in cui vengono messe in luce criticità e tesi a sostegno del padiglione più contestato dell’ultima Biennale di Venezia.
View Article details
- Davide Borsa
- 06 agosto 2021
Davide Borsa: Il mestiere di curatore, specie se si tratta di architettura è difficile. Chi è senza peccato... ma qui di pietre ne sono state scagliate parecchie. Se il medium è il messaggio, ossia tetro, frammentario, caotico e labirintico, racconta di te più di quanto voluto. Aggiungiamo all’immancabile penitenza di incidere il proprio nome nella hall of fame dei caduti alla conquista del Padiglione Italia qualche domanda per non accontentarci di chi ha solo detto che è brutto.
Alessandro Melis: Secondo me le pietre provengono sempre dalla stessa parte. In realtà voci autorevoli dell’arte e della cultura come Luca Beatrice e Pierluigi Panza si sono espresse in modo positivo. Mi viene il dubbio che alcune critiche siano una identificazione proiettiva che conferma che una parte del mondo dell’architettura è semplicemente autoreferenziale. E certamente quella parte non può essere accondiscendente con chi glielo fa notare. Meglio liquidare la mostra con una battuta e dare dell’incapace agli altri, anziché fare lo sforzo di mettersi in discussione.
Se rappresento l’oscurità come una opportunità, e il cielo blu e la luce come il problema, e mi si risponde che la mostra è oscura e distopica, allora forse vale la pena discutere se l’architettura, come è intesa oggi, sia capace di rappresentare la complessità delle relazioni o si limiti a rappresentare luoghi comuni. A me viene il dubbio che alcuni architetti indichino come confusione ogni cosa che non preveda quattro pareti bianche intorno a una installazione o come supporto delle immagini dei progetti. È chiaro che i partecipanti a questo Padiglione Italia hanno messo da parte, spero felicemente, una propria comoda autoaffermazione, per favorire gli usi inaspettati del disordine, per citare Richard Sennett.
Mi spiego meglio: il Padiglione Italia è effettivamente frammentario, caotico, tetro e labirintico, e nella prima sezione viene anche spiegato il perché: l’architettura può andare oltre quello che ci raccontiamo e percepiamo oggi. È materia oscura. Ma se non si ha voglia di leggere almeno quelle due righe di spiegazione è certamente più facile giocare alla viva il parroco e buttarla in caciara.
Certo il Padiglione parla anche di me, delle mie inquietudini e dubbi. Jacques Lacan non era mica uno sprovveduto! (controverso psicanalista e filosofo francese del Novecento, ndr.).
Comunque, al netto delle polemiche, la guerra tra padiglioni con il ribelle Ferrando dell’Unfolding Pavilion contro l’Impero Resiliente del Padiglione Italia mi sembra una appassionata Critic Archi Star Wars...
Chi è il vero ribelle? A me sembra curioso parlare di Impero con riferimento alla prima volta in cui un curatore sposta l’interesse del Padiglione da sé stesso ai coordinatori di sezione e ai partecipanti.
Mi sorprende anche che in molti parlino di partecipazione, per poi lamentarsi che la diversità desti confusione. Su questo punto a me va il merito di aver messo d’accordo i presunti nemici.
Sarebbe comunque difficile sviluppare una critica approfondita sulle basi del gradimento del pubblico, senza cadere nel rischio delle Vacanze intelligenti di Alberto Sordi e Anna Longhi. Però Cesare Brandi (critico dell’arte e saggista italiano, ndr.) insisteva molto sul fatto che l’immagine è ciò che sembra senza mediazione. C’è un aspetto sintetico, intuitivo nella percezione immediata del display anche senza scomodare il Kant di “bello è ciò che piace universalmente senza bisogno del concetto”.
Infatti è ciò che sostengo. Ma se guardiamo solo la nostra pancia e continuiamo a esprimere giudizi utilizzando le tassonomie obsolete dell’architettura, mentre noi cerchiamo di esprimere una posizione secondo cui queste siano inutili e dannose, allora è difficile dialogare. Se il problema fosse lo “snobismo” da Vacanze intelligenti, allora perchè i giudizi dei non esperti e degli under 30 sono stati positivi? Non mi sbaglierei: il padiglione è stato accolto benissimo e compreso da moltissimi. Il che prova il punto sul pregiudizio, non il contrario.
Certo il rischio che volendo rappresentare l’universo si finisca per rappresentare solo sé stessi incombe spiacevolmente.
Come dire che i poligrafi del Rinascimento finirono per rappresentare solo sé stessi. Ogni crisi ambientale costringe a una estensione delle tassonomie in chiave transdisciplinare. Ma quello che conta è il pensiero associativo, non la conoscenza. Non si tratta di parlare di tutto in modo specialistico, si tratta di creare nuove associazioni su cui costruire nuove tassonomie
Resta il fatto che l’ecologia, almeno in Italia, dalla terra dei fuochi alle ecoballe vanta ben tristi primati. Siamo ancora in transizione, purché ecologica (fallendo praticamente tutti gli obbiettivi). Insomma, i passi da fare, come recita il titolo del famoso saggio di Gregory Bateson Steps to an Ecology of Mind sono ancora tanti, anzi lo scetticismo è d’obbligo perché c’era l’entusiasmo di essere di fronte a una rivoluzione che non ha mantenuto le sue promesse. Il libro è del 1972: quando poi si invoca il ritorno ai borghi resilienti è come se per curare l’Ebola si chiamasse lo stregone. La previsione di una coniugazione felice tra scienza, politica e coscienza sociale mi pare più un fatto di fede che un dato scientifico.
Niente di più lontano dalla realtà. Il fatto che io abbia fallito perché abbia rappresentato me stesso è appunto una tua lettura, una reificazione che mette drammaticamente in evidenza che su questa considerazione si abbattono tutte le contraddizioni possibili sul modo in cui il Padiglione Italia è stato concepito, recepito e interpretato fino a oggi
Anche il quadro normativo, sia per l’architettura che per l’ambiente pare scivolare lentamente e inevitabilmente verso la semplificazione. Più che i pensosi e profondi Richard Feynman, Jay Gould o Michael Hofstadter, oggi godono più consenso personaggi che evocano Ozymandias di Watchmen, che scatena una guerra atomica per fermare la Guerra Fredda, ovvero il principio del danno collaterale. O peggio figure sinistre come Lex Luthor, lo scienziato decisionista, saturo di narcisismo edonistico esaltato, o il darwinismo sociale del dottor Stranamore.
Non ho certo parlato di borghi resilienti come cura per l’ebola. Ho parlato dell’ebola come sintomo delle crisi ambientali, questo sì. Ma non come metafora. E ho spiegato anche quali fossero i possibili contributi (positivi) di quello straziante confronto tra politica e scienza. Ma mi pare che anche in questo caso sia più facile lanciare la palla in tribuna e sostenere che dico il contrario di ciò che dico. E quando lo faccio notare mi si dice che allora il messaggio non è chiaro e non sono un bravo curatore. Se fosse così significa che sbaglio in un senso, e anche nel suo contrario. Riesco nell’impossibile
Andrea Inglese ci mette in guardia, “il consumismo è la cosa più vicina al paradiso in terra che i lavoratori delle classi popolari abbiano mai conosciuto”, “Resistere non serve a niente” ammonisce Walter Siti: ciononostante Frampton incita ancora a combattere per la libertà di pensiero critico e autonomia della ricerca artistica, in nome del rinnovamento del progetto moderno di emancipazione sociale e culturale. Siamo veramente pronti a passare alla resilienza quando è in gioco l’autonomia disciplinare? L’architettura ha perso il suo potere di significazione simbolica forte, propugnato dal Moderno, diluito nei novi media. Nella realtà trionfano ancora modelli di sviluppo “speculativi” sostenuti dalla narrazione di una blanda utopia scientista neofordista della smart city e dall’eretismo dei grattacieli, mentre l’idea della comunità resiliente ricorda troppo il progetto minoritario e “anticapitalista” di Adriano Olivetti, e la critica ai modelli di crescita riecheggia Antonio Cederna (con le sue denunce sulla speculazione edilizia) e Francesco Rosi (con il suo film Le mani sulla città del 1963). L’immaginario tardo capitalista infestato da marketing finanziario e propaganda martellante delle ideologie neoliberiste, per cui non è un problema trasformare Arcosanti in un parco a tema per fricchettoni snob, non mi sembra minacciato da onlus, cittadinanze attive, decrescite felici, ecomusei, comunità eco-equosolidali, agricolture sostenibili, bioarchitetture.
Su un punto di sicuro ci ritroviamo: abbracciare la complessità senza semplificazioni. Partirei, in generale, dal valore euristico della biologia evolutiva recente per l’architettura. Oltre alle posizioni e ai principi e anche alle somiglianze con altri progetti (che ci sono e in cui ci riconosciamo), stiamo cercando di accendere una discussione su una possibile estensione della tassonomia dell’architettura.
Una nuova tassonomia come quella omnicomprensiva che propone Patrik Schumacher, riassorbendo tutto nella “tectonic”?
Non condivido quasi niente di quello che afferma Schumacher sui giornali e negli scritti. Ci troviamo spesso su posizioni conflittuali. Il mio interesse per ZHA riguarda piuttosto la proliferazione delle forme ridondanti, diverse e variabili e l’incapacità da parte dei conservatori dell’autonomia di leggere, e capire, il loro potenziale funzionalismo. Il fatto che alla donna più rappresentativa dell’architettura contemporanea non si perdoni niente, mentre si è molto indulgenti nei confronti dei savonarola dell’autonomia, è secondo me un evidente segno della necessità di superamento un certo automatismo critico che in architettura e in poche discipline ancora sopravvive.
Tornando alla tassonomia, come diceva Stephen Jay Gould, ma anche Michel Focault, superare la visione binaria e reificata, degli autonomisti in questo caso, non significa affatto scoprire o evidenziare delle novità. Noi non proponiamo niente di nuovo. Si tratta semplicemente di prendere atto del fatto che le parole svuotate di significato e usate come buzzword non sono solo “resilienza” e “sostenibilità”, ma anche “architettura”, “ordine” e “razionalismo”. Ecco un’altra identificazione proiettiva da parte dei critici delle parole che però sono subito sulla difensiva quando a essere messe in discussione sono le loro parole d’ordine.
Aldo Rossi e Giorgio Grassi sono sicuramente i precursori di un atteggiamento puritano, di una dimensione metafisica, ripreso da Dogma e dai teorici dell’autonomia: anche questa sarebbe una “identificazione proiettiva”?
La più grande moda del momento è usare la parola architettura per descrivere un’espressione piuttosto limitata e di pochissimo impatto sulle comunità e sulle persone, praticata da un numero limitato di maschi, bianchi, cinquantenni o sessantenni, per lo più occidentali come me. La seconda moda è dire che tutto quello che mette in discussione questa tragica moda è una moda. Ovviamente sono solo i membri del club elitari dell’architettura a criticare le parole come “resilienza” per principio. Gli altri entrano nel merito dell’uso appropriato dei termini a seconda delle circostanze e delle ricerche. Ma questo costa fatica e non serve per difendere il proprio presidio, costi quel che costi. Quello che sto cercando di dire è che, per esempio, se il 20% del costruito è architettura “progettata” secondo i criteri del determinismo (gli unici riconosciuti dall’autonomia), e il 20% degli insediamenti sono slum, forse sarebbe più interessante discutere per cercare di capire cosa diavolo sia questo 60% di tessuto costruito (oppure non costruito?) che regola i nostri rapporti con la troposfera.
Secondo qualcuno non è architettura, anche se non è studiato da nessun’altra disciplina. Benissimo, diamogli il nome che vogliamo: Beppe? Beppe sia. Dopodiché per difendere il 20% non definirei una moda il lavoro di chi si occupa di Beppe. Altrimenti si potrebbe pensare che più che una difesa dell’architettura, sia piuttosto un modo per giustificare il proprio ruolo privilegiato.
È anche vero che non c’è niente di più resiliente dell’architettura, dall’ecomostro di Punta Perotti, le Vele di Scampia, lo Zen a Palermo, i palazzi delle Regioni che spuntano come funghi: sono trasformazioni ampiamente irreversibili e scarsamente adattabili.
Infatti. Per questo, in ecologia, quelle architetture si definiscono “resistenti” e non “resilienti”
Ma qui c’è un altro problema: in ecologia e nelle scienze sociali i termini assumono significati opposti.
Una barriera rigida, una compartimentazione, il sollevamento delle città, come risposta all’innalzamento dei mari, sono soluzioni ecologicamente di “resistenza”. Una trasformazione in chiave anfibia di una estesa fascia liminale di costa che favorisce una trasformazione positiva e riconfigurabile della fascia è una soluzione di “resilienza”. Per questo parlo di tassonomie. Altrimenti passiamo il tempo ad accapigliarci solo sui termini, attribuendo agli altri pensieri che non hanno.
Secondo te bisogna chiarire quello che è dentro o fuori dal “mestiere”?
Certo. Quante volte abbiamo sentito dire “io sono contro la resilienza perchè sono per la resistenza?” Per chiarezza: si può serenamente essere in favore della resistenza partigiana ed essere contemporaneamente uno studioso della resilienza in ecologia.
Ma tradizionalmente al centro della disciplina ci sono saperi scientifici come scienze delle costruzioni, non biologia molecolare o chimica organica.
Forse la biologia molecolare no. Non ancora. Ma sei sicuro che al centro del mestiere oggi non ci sia la fluidodinamica anziché la scienza delle costruzioni?
Mi sembra di capire che consideri obsoleti e superati alcuni paradigmi che permangono nelle scuole e nelle discipline. Tradizione di studi che hanno perso il loro valore euristico. Allora questo è un punto: non si insegna bene là dove si insegna l’architettura così?
Mi riferisco proprio a questo quando parlo di estensione della tassonomia. Io insegno progettazione climatica, alla University of Portsmouth, che è un’università pubblica inglese. La fluidodinamica è uno strumento essenziale nella di progettazione. Clima e fluidodinamica applicata a città e architetture sono in realtà discipline molto antiche se si va a leggere la storia in modo “alternativo”. Basta pensare alla città storica iraniana per fare il primo esempio che mi viene in mente. Forse, queste e altre materie non si insegnano troppo spesso in Italia, ancora, perchè ci si preoccupa forse troppo di conservare alcuni ruoli e privilegi anziché di interpretare la crisi.
È sufficiente spostare l’accento da scienza delle costruzioni a scienza dei materiali per fare una rivoluzione?
No. Ma potrebbero essere dei piccoli passi di avvicinamento a una rivoluzione.
È la fine del cemento come paradigma del moderno? Fondamento mai messo in discussione neanche quando si adottava un modello organico-biologico, anche se solamente su basi morfologiche (Frank Lloyd Wright, Erich Mendelsohn). Spesso nell’arte e in architettura il modello di trasmissione prevalente è l’imitazione e il gusto più che la ricerca, col rischio di abbandonarsi indolentemente all’arretratezza di un immaginario reazionario arroccato su posizioni tardofordiste-international-fusion-style, per giunta servito in salsa verde eco chic, veramente difficile da digerire.
Si, questo è un rischio sempre presente, verissimo. Per questo non si tratta di fare niente di nuovo, solo di dare valore a esperienze che forse sono state liquidate troppo facilmente come indirizzi “solitari”, radicali, utopici, visionari e minoritari nell’estetica mainstream. E forse anche ‘brutti’ se vogliamo applicare le categorie tradizionali di giudizio. È anche chiaro (per superare certe barriere disciplinari) che esiste ancora un grosso problema nel modo in cui l’università italiana seleziona e promuove il reclutamento orientando la ricerca.
Il Movimento Comunità di Adriano Olivetti ma anche gli hobbit di Tolkien e i ribelli di Star Wars e i Fremen di Dune, sono esempi di comunità resilienti. In architettura l’utopia biologico-olistica ha una grande tradizione minoritaria. Il saggio di Cristopher Alexander La città non è un albero del 1967 sembrerebbe definire un’urbanistica non binaria, metre A Pattern Language: Towns, Buildings, Construction è del 1977. Dall’evoluzionismo semperiano la teoria ha sempre inseguito l’integrazione tra architettura, nuove scienze e principi dell’universalismo ecologico, scontrandosi coi limiti luddisti dell’organizzazione del lavoro e della produzione.
Trovo interessantissimo il riferimento alla “città non è un albero”, perchè nel suo saggio, forse inconsapevolmente, Alexander mette per la prima volta le basi per una possibile discussione sull’esattamento in architettura. Quando distingue tra città pianificate, o di fondazione, e le strutture “semi-lattice”, in realtà corrobora l’idea che in architettura, come in biologia evolutiva, l’indeterminismo, appunto il disordine, come direbbe Sennett, attraverso l’aumento delle interconnessioni, favorisca la resilienza degli organismi, come hanno dimostrato Stephen J. Gould e Elisabeth Vrba negli anni ‘80 e, più recentemente il genetista Ewan Birney: il genoma è una giungla popolata da strane creature; altrettanto il disordine, le imperfezioni, e le relazioni, possono costituire il serbatoio di possibilità per le città in trasformazione a causa delle crisi ambientale.
Con questo ragionamento, ribadisco che oggi la questione non è tanto discutere di nuovi paradigmi. È più importante cooptare funzionalmente e dare il giusto valore a posizioni che sono emerse più volte e sempre marginalizzate dalla visione reazionaria e ordinatrice, da sempre nella cabina di regia della pianificazione.
Altrettanto convincente è, per me, il riferimento ai Fremen. Nel senso che il loro radicalismo è più vicino al cambio delle regole del gioco che auspicherei oggi. I Fremen, secondo me, vanno oltre la metafora della scacchiera di Huxley, secondo la quale natura ed esseri senzienti sono giocatori equivalenti. La discesa dal trono dell’arroganza umana, l’accettazione della diversità e la convivenza, o addirittura la simbiosi, con specie non umane in un contesto ambientale estremo, sono cruciali. La dimensione politica e sociale del movimento comunità di Olivetti, di cui peraltro sono un ammiratore, è inscritta in una precisa fase storica della nostra evoluzione civile.
Negli echi fantasy di Hobbiton e nel romanticismo western della Repubblica di Star Wars, vedo anche allegorie dell’idealismo, che, anche se antico quanto Platone, appartiene sempre ai mille anni di civilizzazione. Tanto, in termini di storia dell’architettura, e quasi niente, in termini di evoluzione umana. Hanno ancora senso le tassonomie dell’architettura che conosciamo, intendendo come tali le associazioni che diamo per scontate? Non si tratta più di stare da una parte o dall’altra, ma di giocare una partita diversa.
Faccio un esempio: secondo la paleoantropologa Heather Pringle non ha alcun senso distinguere tra arte, tecnologia e scienza. Sono tutte e tre manifestazioni del pensiero associativo, una modalità di pensiero esclusivamente umana che si attiva nei contesti di crisi e a cui si deve la nascita della creatività.
La distinzione tra queste si fonda su un pregiudizio che ha avuto una certa utilità come strumento per dare un ordine tassonomico alla nostra società, ma è fondamentalmente inutile per la gestione della complessità della crisi ambientale. In quest’ottica anche le opinioni che abbiamo su posizioni come il luddismo, o rispetto a dicotomie convenzionali come quella tra artificio e natura, sono un po’ come la fisica newtoniana prima della scoperta della relatività. Sono reificazioni, come direbbe Gould, che funzionano ancora per le cose di tutti i giorni, ma che non spiegano le anomalie di un sistema più esteso e complesso, che non possiamo più trascurare quando il mondo è attraversato dalle crisi globali.
È più importante cooptare funzionalmente e dare il giusto valore a posizioni che sono emerse più volte e sempre marginalizzate dalla visione reazionaria e ordinatrice, da sempre nella cabina di regia della pianificazione
- Padiglione Italia. Biennale di Architettura 2021. Foto Marco Menghi