Devo ammettere una certa sensazione di trauma nel visitare conosciute sinfonie curatoriali come il padiglione centrale della Biennale di quest’anno, un senso di non essere mai usciti da lì dentro, dove mi trovavo nel novembre del 2018. L’essere nel 2021, il trovarsi — e giù espressioni formulari che tanto non ne usciamo — a valle di un anno e mezzo di pandemia, non era detto che avrebbe generato necessariamente un senso di sete da saziare: più probabilmente infatti si sarebbe trattato di un senso di jeans liscio il giorno dopo una sbronza.
La clusterizzazione, decodificazione dei dati, la loro sublimazione nei supporti di installazioni dal concept — in parte almeno — raffinato, la lingua delle Biennali ripresa e riparlata immediatamente e senza ammissione di una qualche discontinuità cronologica, può lasciare anche in difficoltà, enfatizzare un bisogno di una qualche cesura, perlomeno comunicativa.
Perché è assolutamente necessario, ora più che mai, che ci siano le azioni di Forensic Architecture e i boati della Antarctic Resolution di Giulia Foscari con Unless a interrompere le chiacchiere da evento, ad inchiodarci al fatto che una delle poche cose a sopravvivere intatta alla pandemia sia stata la nostra natura abusatoria, verso i nostri simili e verso il nostro habitat; ma un po' meno necessarie sono altre manifestazioni di acribia architettonica che, nel maneggiare i soliti termini, paiono infischiarsene perfettamente tanto di ciò che è cambiato, quanto di ciò che permane.
In una fragile urgenza di ripresa che chiama di nuovo in causa molto di quello spirito da società della performance su cui si tenta di richiamare una sempre più affaticata attenzione (come nel libro omonimo di Maura Gancitano e Andrea Colamedici) capita di chiedersi se in fin dei conti sia poi proprio il caso, di vivere assieme, o perlomeno se serva una qualche pausa di ricomprensione, un gesto di demarcazione pur simbolica di un discorso che andrebbe un minimo ridefinito nelle sue priorità.
Nel chiederci quale questo gesto possa essere, potremmo uscire tanto fisicamente quanto simbolicamente dai recinti di Biennale, e incontrare la scelta radicale di occuparsi di altri mondi, di mondi altri. Nell’eterno gioco uovo-gallina del rapporto tra tema della Biennale e contenuto dei padiglioni, questo thread sembra dare almeno in parte risposta ai dilemmi appena evocati. Lo incontriamo quando andiamo a far parte del pianeta di corpi umani che Julijonas Urbonas sta creando, giorno dopo giorno e scan dopo scan, nella chiesa di Santa Maria dei Derelitti, il padiglione Nazionale lituano, curato quest’anno da Jan Boelen.
Urbonas ha creato Lithuanian Space Agency, un progetto che esplora le estetiche gravitazionali per dar forma a una Terza Età dello Spazio, e accoglie i visitatori in un teatro digitale di body scanner 3D, circondati da strutture in una materia di origine apparentemente indefinita.
"Mi interessa esplorare stati alterati di gravità dove testare l'immaginazione e il pensiero,” ci racconta subito Julijonas Urbonas, “questo progetto è un esperimento di pensiero che ci invita a creare una collezione di esseri umani sradicati da tutte le appartenenze terrestri, riuniti in stretta prossimità per un tempo rilevante, una ridefinizione dei termini umani dell'architettura. Immaginate esseri umani privi di bisogni propriamente terrestri. Se rimuoviamo tutte le questioni terrene, cosa guida l'architettura? Il corpo vitruviano ne è stato il centro finora, era una questione di antropocentrismo e di gravità. Ma nello spazio questi due questioni potrebbero scomparire. Quindi cosa sarebbe l'architettura senza gravità? Cos'è un architetto nello spazio? Può esistere?”
Una posizione che arriva al fondo di un lungo percorso di ricerca ma soprattutto personale. “Mio padre era il direttore di un piccolo parco divertimenti nel blocco sovietico, ci sono cresciuto dentro e ho potuto esperire le giostre come un unico genere di arte: nessun'altra tipo di arte ha un effetto narrativo così potente sui nostri corpi. Si chiama ego-motion, uno stato in cui si viene mossi, un maniera unica di esperire l'estetica. Figuratevi che mentre proponevano idee per questo progetto avevamo anche pensato ad una sala conferenze rotante! Ho passato 11 anni a sviluppare le gravitational aesthetics, tutti i possibili stati di alterazione della gravità: come può essere vivere, cacare, fare sesso, mangiare in altri stati di gravità. Oggi, in questa Seconda età dello spazio che non è solo un fatto economico, ma un vero astro-anthropocene, aumenta la nostra consapevolezza di esseri terreni”.
“Quindi il momento per cominciare a pensare i propri progetti in termini di fiction è esattamente ora. Dovreste provare, Almeno temporaneamente, a staccarvi completamente dalla vostra origine terrestre: questo è stato il nucleo del primo annual report della Lithuanian Space Agency, e anche il modo in cui l'idea di un pianeta di persone, fatto di corpi umani, ha preso il sopravvento sulle altre alternative che stavamo valutando”.
Diventa piuttosto chiara la ragione per cui ci si è lanciati a capofitto nell’esplorazione di un tale shift . “La ragione è in realtà quella di reagire a un altro shift attualmente in corso nella cosmic imagination, così come questa Seconda Età dello Spazio la concepisce, un termine specifico attualmente colonizzato dagli Stati Uniti e dalla Russia. Provate a stare in ascolto di questo Zeitgeist, di tempi escatologici: le persone sono sempre più abituate a parlare in termini apocalittici, e guardano verso l'alto per ricevere buone notizie. E nonostante questo, se pensate a come il futuro viene immaginato oggi attraverso lo spazio, ottenete una scena colonizzata, privatizzata da certi paesi e soprattutto da poche persone, una questione per miliardari.”
Diventa una questione di space politics. “Abbiamo cominciato a guardare a questo progetto da prospettive di space aesthetics, space politics e space ethics. Astro-ethics, per usare l'espressione più indicata. L'architettura che proponiamo non è l'architettura di sempre, solo trasferita in uno stato di levitazione. L’'architettura è così radicata nella terra oggi, persino nella fantascienza ha il ruolo di mera applicazione di storie prettamente terrene. Pensate a Jeff Bezos e compagnia, che pagano famosi studi di architettura per visualizzare le loro idee architettoniche nello spazio, e anche se visualizzano oggetti levitanti, i costrutti politici e sociali che li percorrono restano sempre quelli terreni. Una scrittrice americana che è venuta qui qualche giorno fa mi ha detto ‘Anche Elon Musk è di quelli che mandano le loro d*ck pic a tutti quanti! Ecco di chi si tratta’. Una sua amica è stata invitata una conferenza da un gruppo di Giampiero, con la richiesta di presentare idee fresche e radicali di futuro, è stata pagata quanto il suo lavoro dei prossimi 4 anni, e si è trovata a un tavolo con quattro persone, la cui unica preoccupazione era ‘E se l'economia collassa dove troveremo rifugio, come ci proteggeremo dagli eserciti che noi stessi abbiamo creato?’ L'immagine complessiva che emerge è estremamente egocentrica, tutta concentrata su come sopravvivere. Questo tipo di visioni non conduce altro che lì. È un'immagine ampia ma va ad applicarsi anche all'architettura."
"È da qui che io comincio il mio lavoro, la mia ricerca di uno shift, immaginando una scena e una coreografia, un'organizzazione di persone, un orientamento dello spazio e del movimento che sino ad oggi non siano ancora esistiti. Attenzione a non fraintendere come un approccio brain in a vat come era successo con ambienti alla Second Life. Il mio progetto ha più a che vedere con un dancefloor extraterrestre. È così che anche l’architettura può diventare potentemente interessante in termini di narrativa: cosa succederebbe se anche l'architettura diventasse un genere di fiction? Una fiction partecipativa, interattiva, un invito a essere architetti, a partecipare alla Terza Età dello Spazio, quella democratica, dove d'un colpo tutto è accessibile per tutti. In realtà è già qui, perché lo spazio è già in noi in quanto parti di un essere cosmico.”
Non parliamo di utopie, di eterotopie terrene, il ruolo stesso dei nostri corpi viene sradicato da una operazione di fiction che poi tanto fictional manco è; il corpo è centrale ma non come in un terrenissimo modello anthropokosmos alla Constantinos Doxiadis; è cosmico nel senso di una scala superiore e più inclusiva di appartenenza.
Nemmeno una eutopia propriamente detta. Il tema della eutopia invece è il grimaldello con cui la Germania ha voluto scardinare il meccanismo della infinita produzione auspici e linee guida: 2038. The new serenity, a cura di un team riunito da Arno Brandlhuber, Olaf Grawert, Nikolaus Hirsch e Christopher Roth, è una operazione che ci parla da un futuro dove “tutto, benchè imperfetto, è profondamente e radicalmente migliore.” Si passa da architettura come genere di fiction alle prefigurative politics come strumento per darci un orizzonte cui tendere con i progetti e le pratiche. Dal 2038 ci parlano giovani viaggiatori così come Audrey Tang, Francesca Bria, V. Mitch Mc Ewen e altre figure, in film che raccontano di quegli “strani piccoli artefatti che potrebbero innescare cambiamenti sistemici, raccontando la storia come contingente, complessa e paradossale — quale è.” A radicarci nel 2021 c'è poi un dato di realtà: segreto ormai di pulcinella, 2038 è totalmente online. Lo spazio fisico del padiglione è trascritto nel virtuale, e le sue stanze ai Giardini sono vuote: non banale la soluzione, benché covid-related. E visitarlo vuoto, scansionandone i QR code qua e là ha senso. Il senso di far rivalutare il qui-e-ora ancora una volta in una situazione di leggera alterazione delle coordinate consuete, un po' come fa il Tai Chi per ri-centrarci su noi stessi.
Non è finita la possibilità e attualità di mondi altri esplorabili in laguna. Quanto altro e quanto vicino è un pub, luogo privato ma collettivo, che di colpo potremmo cominciare a leggere per ciò che è, ossia uno spazio di aggregazione e confronto, una polveriera di possibile attivazione politica, in fin dei conti uno spazio pubblico? Questo è l'altro mondo del padiglione inglese dove ci porta The Garden of Privatised Delights, la riflessione di Madeleine Kessler, Manijeh Verghese e Unscene Architecture sullo stato dell'arte ma soprattutto sul grande potenziale della grande quantità di materia pubblica gradualmente recintata dal privato: un rapporto che potremmo arrivare a ribaltare, fino ad ottenere risultati financo opposti al punto di partenza. D’altro canto, cos'era lo Stonewall Inn di New York nel 1969, prima di diventare l'epicentro di una rivoluzione, se non un bar?
Merita ancora menzione un approccio molto novecentesco e terreno all'altromondistica, creato però 60 anni fa dagli studenti di Richard Buckminster Fuller, a cui dobbiamo molta della nostra capacità di pensare la terra in termini globali o interconnessi. Riatterrando infatti nel padiglione centrale da cui siamo partiti, la Geoscope 2 ricreata da Jesse Reiser con la Princeton University e Daniel López-Pérez ci riporta a capsule sensoriali, quasi spaziali, della science fiction da Prima Età dello Spazio, ma ancora una volta ci immerge nel gioco di rimando sensoriale tra ambiente e individuo che è la base stessa di creazione di un habitat.
Pause, tempi di ricomprensione, pratiche altre, regole altre: se c'è un momento in cui si desidera un cambio di linguaggio è questo. E non è necessario — si ricadrebbe nel performance freak — uscire al più presto con l’ennesimo manifesto. Potrebbe essere il tempo anzi per guardarsi in specchi nuovi, e in mezzo alle consuete onde del suo ruscellare sovrainformativo, questa Biennale ce lo potrebbe permettere.