Sono tanti i progetti della 17. Biennale Internazionale di Architettura che, guardando a un futuro post-antropocenico, cercano di considerare il reciproco e fragile rapporto tra specie diverse. Lo fanno prendendo in considerazioni modalità differenti: adattamento, convivenza, collaborazione, mimesi. Il messaggio, invece, è, di per sé, univoco: se vogliamo uscire dall’era dell’uomo, quella in cui noi umani abbiamo dominato, condizionato e pressoché distrutto l’ecosistema terrestre, se vogliamo puntare a una coesistenza tra specie pacifica e sinergica, è caldamente consigliato allargare gli orizzonti. Scorrendo i progetti esposti tra le spesse mura dell’Arsenale – nella mostra del curatore Hashim Sarkis e soprattutto nelle Stazioni sviluppate dai ricercatori delle università di tutto il mondo – ai Giardini, nel Padiglione Centrale e in alcuni padiglioni nazionali, è chiaro che in questo processo gli architetti potrebbero avere un ruolo tutt’altro che secondario.
La collaborazione multidisciplinare appare sempre più ampia e sembra diventare un elemento quasi imprescindibile del gioco. Se nessuno si sorprende più che un progettista lavori al fianco di antropologi, etnologi, biologi, geografi e scienziati, questa biennale va però al di là del concetto di collaborazione tra ambiti diversi, ridefinendo il mestiere dell’architetto, che è diventato uno tra i molti partecipanti a una discussione più ampia, a un esperimento di collaborazione sempre più globale, continua e aperta, accelerata forse anche da questo anno di pandemia. E, se riuscisse a mettere a sistema la capacità di visione che da sempre lo contraddistingue, potrebbe essere proprio l'architetto a tenere le fila di questo nuovo modo di procedere, con l’apporto di molteplici esperti di altrettante materie.
Come scrive l’antropologa Anna Lowenthaup Tsing – autrice del classico dell’ecologia Il fungo alla fine del mondo – “collaborazione significa operarsi per superare le differenze, e questo comporta una contaminazione”. A Venezia, da questa collaborazione / contaminazione emergono forme originali di scrittura, di progetto, di analisi e di ricerca: le gabbie-voliere di Studio Ossidiana, l’atlante vegetale per raccontare la ricchezza culturale di un barrio a Caracas (Enlace Arquitectura), i funghi raccolti sulle pareti dell’Arsenale e studiati in laboratorio ad Atene (Thomas Dioxadis), le libellule-barometro del clima monsonico e del cambiamento climatico (Lindsay Bremner) sono alcuni esempi.
Come “la necessaria diversità dinamica multispecie che sta alla base di una foresta” (sempre Tsing), nella Biennale emerge un racconto corale, fatto di voci diverse, ma sempre in dialogo tra loro, unite nell’affrontare problematiche attuali: sociali, urbane, spaziali e politiche. Alcune di queste provano a rispondere al “Come vivremo insieme?” lanciato da Hashim Sarkis: l’americano David Benjamin indaga materiali bioricettivi, mentre Studio Libertiny progetta strutture ispirate alle api. Il più delle volte, però, le ricerche e i progetti sollevano questioni ulteriori o intavolano un più articolato dibattito, come il padiglione israeliano, trasformato in freddo obitorio con gli animali estinti di quello che un tempo era un territorio dell’abbondanza, o l’ecologia di confine lungo la Striscia di Gaza di Malkit Shoshan.
Così facendo e continuando sulla scia del “Reporting from the front” di Alejandro Aravena, la Biennale assolve al suo compito: catalizzare stimoli da tutto il mondo, risvegliare l’immaginazione e offrire una piattaforma di conversazione che parte dall’architettura per abbracciare tutto il sapere di cui ha bisogno per ridisegnare il mondo.