Un cuore, o forse due ami accostati. Uno scolapiatti, o forse un tombino con dei piatti appoggiati. Un cucchiaio che non è un cucchiaio, ma che avrebbe voluto essere una forchetta.
Nature morte surreali
Protagoniste di una mostra ai Rencontres di Arles, le nature morte di oggetti del fotografo spagnolo Chema Madoz sono un tentativo di affrontare tutto quello che ci circonda con occhi nuovi, senza dare nulla per scontato.
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- Francesca Esposito
- 19 agosto 2014
- Arles
Immagini surreali e paradossali, fotografie composte con grande ironia, vere e proprie nature morte in bianco e nero, sono questa alcune delle metafore poetiche scattate da Chema Madoz. Pulite e potenti, le opere del fotografo spagnolo, nato a Madrid nel ’68, sono protagoniste di una bella e corposa retrospettiva all’interno dei Rencontres di Arles, uno dei festival di fotografia più famosi al mondo.
Francesca Esposito: Les Rencontres è un appuntamento molto atteso per il mondo della fotografia. Cosa significa per lei, dopo più di 20 anni dalla prima esposizione, essere protagonista con questa retrospettiva? Chema Madoz: La retrospettiva qui ad Arles è una di quelle esposizioni che a lungo termine possono supporre un punto d’inflessione nella tua carriera, come la retrospettiva che aveva organizzato il Museo Reina Sofia nel 2000 sul mio lavoro. Ai Rencontres tutto acquisisce un’altra prospettiva, grazie anche alla grande cassa di risonanza, che permette allo spettatore di avere una visione completa riguardo al modo di guardare.
FE: La sua formazione iniziò a Madrid, da lì come è arrivato ai lavori esposti in mostra? CM: All’inizio studiavo Storia dell’Arte all’Università Complutense di Madrid, dove iniziai a seguire alcuni corsi base di fotografia. In quei tempi non c’erano corsi strutturati da un punto di vista professionale e non si considerava praticamente la possibilità di utilizzare la fotografia come linguaggio. Quello che fin da subito attirò la mia attenzione fu la possibilità, proprio attraverso la fotografia, di trasmettere idee e di ordinare il mondo da un mio punto di vista. FE: Come avviene, nella sua mente, che un’immagine da reale diventi surreale? CM: Le immagini sorgono dalla contemplazione. Non c’è un momento concreto, preciso. Possono sorgere in qualsiasi momento e luogo. Generalmente quello che faccio è un piccolo disegno preventivo, semplicemente come annotazione di un’idea e come una prima approssimazione visuale dell’immagine. Quindi cerco gli elementi necessari e lavoro con quelli, fino a ottenere l’elaborazione dell’idea. La fotografia è l’ultimo passo e si limita a scattare quello che si è costruito. In questo modo, l’ottava arte svolge il ruolo che le si è associato, ovvero di preservare nella memoria qualcosa che dopo lo scatto sparisce.
FE: C’è una figura in grado di rappresentare al meglio la sua mente? CM: È una specie di autoritratto che feci a partire da una radiografia della mia testa, nella quale lo spazio del cervello è occupato da una nuvola. Ha esattamente la stessa forma del cervello e per me, questa nuvola, simboleggia l’immaginazione e la possibilità di acquisire mille forme differenti, come quei giochi che si fanno da bambini. FE: Parliamo della tecnica: tutto inizia con una Hasselblad. Quanto è importante il mezzo per lei? CM: Non è esattamente così. Iniziai con una fotocamera da 35 mm e fu solo anni più tardi che iniziai a lavorare con queste Hasselblad che mi stanno accompagnando da più o meno 25 anni. È un tipo di macchina che soddisfa perfettamente le mie aspettative al momento dello scatto. Quello che più mi interessa è il concetto e lo sviluppo delle idee. FE: Quanto è importante la psicologia nel suo lavoro? CM: È importante nella misura in cui la psicologia si occupa di tutto quello che non risulta evidente ma tuttavia condiziona la maggioranza delle nostre azioni. Suppongo che sia una forma di lavoro che fa da sfondo delle cose.
FE: Se pensiamo ai più grandi nel surrealismo – Breton, Dalì, Magritte – tutto sembra iniziare con Freud. Che ne pensa?
CM: In qualche testo sul mio lavoro, appare Freud come uno dei miei riferimenti principali, soprattutto nel momento di elaborare le immagini. Non è qualcosa di cosciente da parte mia, anche se suppongo che lo stesso Freud avrebbe molto da dire riguardo alla mia mancanza di coscienza.
FE: Inoltre è come se ci fosse una sorta di filo conduttore surreale in Spagna, a partire proprio da Dalì.
CM: Non è difficile poter relazionare la Spagna con la tradizione surrealista, soprattutto se pensiamo ad artisti come Dalì, Buñuel, Mauja Mallo o alcuni dei testi dello stesso Lorca. Sicuramente si potrebbe stabilire un legame con alcuni aspetti della nostra cultura, però temo che non servirebbe a spiegare la situazione attuale, più vicina, in alcuni casi, all’insensato.
FE: Alcune fotografie sono piene di umorismo e nello stesso tempo di poesia. Si considera un poeta o un fotografo?
CM: Sono un fotografo che utilizza un linguaggio nel quale si mescolano un’infinità di influenze. Della poesia mi ha sempre interessato la sua brevità e la sua capacità di trasmettere immagini con intensità e pochi elementi. In questo senso, capisco che ci sia una relazione: il poeta esplora la risonanza e il significato della parola in una misura simile a quella con la quale io posso esplorare l’oggetto.
FE: Cosa vuole comunicare attraverso i suoi lavori?
CM: Si potrebbe dire che il mio lavoro è una specie di arringa contro i dogmi o le grandi verità. È una rivendicazione del dubbio, un tentativo di affrontare tutto quello che ci circonda con occhi nuovi, senza dare nulla per scontato o già conosciuto. Il quotidiano come un terreno selvaggio e sconosciuto.
FE: Come dovrebbe sentirsi uno spettatore davanti alle sue metafore fotografiche?
CM: Dovrebbe prendere coscienza, mi sentirei soddisfatto se uscisse da una mia esposizione con una sensazione di vertigine di fronte alla possibilità che in realtà tutti gli oggetti offrono in casa sua.
FE: Chi, più di ogni altro, l’ha influenzata?
CM: La lista è lunga. Ci sono moltissimi artisti che mi interessano e che in molte occasioni sono totalmente contraddittori tra loro, come André Kertesz, Duane Michael, Man Ray, Magritte, Cildo Meireles, Sugimoto, Joan Brossa.
FE: Sta lavorando per un nuovo progetto?
CM: Il mio lavoro è costante. Adesso sto preparando una esposizione con materiale recente che si presenterà nella mia galleria di Madrid, Elvira Gonzalez. Poi ci sarà una presentazione a Madrid con una ampia revisione dei miei lavori degli ultimi sei anni. Nello stesso tempo sto preparando altre mostre con Michael Hoppen a Londra, un’altra a Vienna e Paris Photo a novembre.
FE: Molte volte in questa intervista si è parlato di surrealismo. Cos’è esattamente?
CM: Il surrealismo apre porte, mentre le spiegazioni con le loro dimensioni, in qualche modo, le chiudono. Non credo sia necessario, anche se è certo che nel mio lavoro alcuni aspetti si possono vincolare con questo movimento, altri potrebbero invece relazionarsi con lavori minimalisti o concettuali. Si tratta comunque di un lavoro che entra attraverso gli occhi e, nel mio caso, preferisco non dare troppe spiegazioni. Che ogni spettatore, semplicemente, tiri le proprie conclusioni.
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© riproduzione riservata
fino al 21 settembre 2014
Chema Madoz
a cura di Borja Casani
Les Rencontres de la photographie
Magasin Électrique, Parc des Ateliers
Arles