A Woman’s Work esplora i ruoli, l’influenza e la visibilità delle professioniste contemporanee nel mondo del progetto. Ha la forma di un simposio che si è svolto nell’ambito della mostra “Against Invisibility”, al Museum of Decorative Arts di Dresda. Strutturato in tre parti (Sostenitori della storia, Abilitatori di visibilità e Smontaggio delle Condizioni Esistenti), il simposio ha voluto riportare in primo piano le donne che agiscono nel mondo del design, dell’arte e dell’architettura, creando le basi affinché la loro visibilità diventi una condizione permanente.
Le curatrici Vera Sacchetti e Matylda Krzykowski sono le fondatrici di Foreign Legion, un’iniziativa curatoriale attiva a livello globale. Il loro saggio A Woman’s Work, ovvero verso la rivoluzione yin – che pubblichiamo qui di seguito – fa parte del catalogo della mostra “Against Invisibility”.
Foreign Legion
A Woman’s Work, ovvero verso la rivoluzione yin
Questo saggio di Vera Sacchetti e Matylda Krzykowski introduce il simposio “A Woman’s Work” sul ruolo delle protagoniste di oggi nel mondo del design.
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- Matylda Krzykowski, Vera Sacchetti
- 16 gennaio 2019
Le donne non devono più conformarsi a un orientamento professionale prestabilito, ma progettare il proprio percorso in qualunque modo ritengano migliore.
“Visto che comunemente tutte le utopie fondano il loro funzionamento sul controllo e lo yin non esercita controllo, un’utopia yin è una contraddizione in termini? Comunque è una grande forza. Come funziona? Ho solo delle intuizioni. Intuisco che il genere di pensiero che rappresentiamo, a partire da come cambiare gli obiettivi della dominazione umana e della crescita illimitata in quelli dell’adattabilità umana e della sopravvivenza a lungo termine, in fin dei conti è un cambiamento dallo yang allo yin, e quindi coinvolge l’accettazione dell’impermanenza e dell’imperfezione, la tolleranza dell’incertezza e del ripiego, la familiarità con l’acqua, l’oscurità e la terra.” – Ursula K. Le Guin [1]
Alle designer dei primi del XXI secolo gli ultimi due decenni hanno dato attenzione e, con l’attenzione, visibilità e valore. Il rinnovato interesse per il ruolo delle donne nel design contribuisce a rimediare a uno degli aspetti più carenti della storia della disciplina: la sistematica cancellazione della presenza femminile. È un’occasione da festeggiare anche se, come ha recentemente detto la critica Alexandra Lange, “le donne ci sono sempre state – dato che le ricerche storiche recenti hanno dimostrato che hanno avuto una parte nell’informatica, nelle scienze e in una miriade di altri campi dominati dai maschi – ma abbiamo trascurato il loro contributo. [2]
E tuttavia questa nuova collocazione sotto i riflettori dovrebbe essere non tanto motivo di celebrazione quanto occasione di provocare un mutamento sistemico e necessario, che abbia la forza di incidere a fondo sul mondo e sul sistema del design, con conseguenze positive e benefiche non soltanto per le donne ma per tutti coloro che lottano per la visibilità e per l’uguaglianza, e in definitiva per la disciplina stessa. Il riconoscimento del ruolo delle donne nella storia del design apre la strada ad altri tipi di consapevolezza, come il riconoscimento della natura fondamentalmente collaborativa della disciplina del design nonché dei numerosi, complessi rapporti sottesi alla realizzazione di un oggetto progettato, analogico o digitale che sia, materiale o immateriale.
Fino a oggi, nel design, le donne sono state per lo più formate da uomini; sono state assunte da uomini; hanno lavorato per uomini; e il loro lavoro è stato valutato (e incluso o meno nelle mostre) da uomini.
Con questa consapevolezza arriva anche la comprensione del fatto che il design non è una disciplina di grandi nomi e di eroi – come la storia del progetto ci ha fatto credere per la maggior parte degli ultimi due secoli – ma una disciplina in cui parecchie mani lavorano insieme, intessendo processi non lineari e storie complesse. È nel portare avanti questa consapevolezza che l’analogia del simbolo di yin e yang diventa utile. “Nel simbolo di yang e yin”, scrive la fondamentale autrice Ursula Le Guin, “ciascuna metà contiene in sé una porzione dell’altra, indicandone la completa interdipendenza e la continua intercambiabilità.”[3]
Per Le Guin le caratteristiche yang – “maschile, brillante, arido, duro, attivo, penetrante” – e quelle yin – “femminile, oscuro, umido, morbido, ricettivo” – non vanno considerate separate né subordinate le une alle altre. Sono invece complementari e paritarie. “Né le une né le altre possono esistere autonomamente”, conclude, “e ognuna è costantemente in corso di diventare l’altra.”[4]
Mentre le donne entrano nel cerchio di luce della storia del design e sono oggetto di nuove analisi e di rinnovata attenzione, anche il modello progettuale prevalentemente yang viene rimesso in discussione e va ripensato in tutta la sua confusione, la sua incompletezza e la sua problematicità. In questo processo la stessa disciplina, nell’arco del suo passato, del suo presente e del suo futuro, deve sottomettersi a una profonda trasformazione. Da qui parte la rivoluzione yin. Le donne non hanno più bisogno di navigare nella professione del design senza modelli di ruolo cui guardare e ispirarsi. Le donne non devono più conformarsi a un orientamento professionale prestabilito, ma progettare il proprio percorso in qualunque modo ritengano migliore. E, dato che negli anni recenti le progettiste trovano più che mai intorno a sé esempi di ispirazione, la professionista di oggi non deve abbassare la voce, attenuare la sua presenza, nascondere la sua capacità di intervento.
E tuttavia proprio questa rivendicazione è la sfida più grande, quella che deve assorbire in questo momento la maggior parte della nostra attenzione: trovare e usare la nostra voce, forte e chiara, nel campo del design.
Affermare:
Sì, dammi quest’occasione.
Sì, voglio avere accesso a questa piattaforma.
Sì, dammi quell’incarico (e pagami quanto pagheresti un uomo).
Sì, rappresenta e vendi il mio lavoro (allo stesso prezzo a cui venderesti un lavoro fatto da un uomo).
Sì, è ovvio, è necessario ed è e l’unico modo in cui lavorerò per te, con te, accanto a te.
Dato che negli anni recenti le progettiste trovano più che mai intorno a sé esempi di ispirazione, la professionista di oggi non deve abbassare la voce, attenuare la sua presenza, nascondere la sua capacità di intervento.
Parlare forte e chiaro, senza paura e senza esitazioni, appare la cosa ovvia da fare e un’indagine sulle professioniste contemporanee scoprirà che una minoranza di esse agisce e si muove del mondo del design esattamente così: senza paura e senza esitazioni. Ma si guardi al di là questo ridottissimo numero e si scoprirà che, nel design, per le donne rivendicare di avere una voce è ancora una cosa molto difficile. Questa difficoltà è per lo più collegata alle strutture e agli inquadramenti entro cui ci muoviamo nel mondo del design. Fino a oggi, nel design, le donne sono state per lo più formate da uomini (in corsi che oggi sono frequentati per circa la metà da studenti donne); sono state assunte da uomini; hanno lavorato per uomini; e il loro lavoro è stato valutato (e incluso o meno nelle mostre) da uomini. “La formazione ha un ruolo importante nell’aiutarci tutti ad accettare modi differenti di organizzare rapporti e potere nelle istituzioni, nelle università, nei consigli d’amministrazione e nelle assemblee pubbliche”, scrive la curatrice ed educatrice Chus Martínez in un recente articolo.[5] Martínez prosegue affermando che, se le donne non cambiano il modo in cui sono percepite, le occasioni professionali da sole non saranno sufficienti. “Dobbiamo dare un nome ai rischi che le donne affrontano”, conclude, “ma dobbiamo anche essere abbastanza elastiche da giocare sulle strutture radicate con costanza sufficiente a trovare modi di lavorare insieme che siano più equi. Adottando modelli preesistenti adottiamo anche il loro valore simbolico”.
La creazione di ambienti dialogici dove si possa praticare, mettere alla prova e infine replicare e amplificare il cambiamento può aver luogo solo se e quando le donne del design inizieranno a usare la loro voce, forte e chiara, in un abbraccio polifonico. E, trovando la forza nel numero, potranno finalmente rivendicare una vera uguaglianza, la quale, ci ricorda Martínez, “richiede di spingere al limite le condizioni esistenti”[6] per arrivare infine a smantellarle.
Smantellare le condizioni del presente è fondamentale affinché la visibilità delle donne diventi permanente. Oggi, anche se l’invisibilità appare lontana, c’è il grande rischio che una professionista donna venga rapidamente assimilata dal sistema e diventi una risorsa, semplicemente una delle tante tendenze, un’ossessione temporanea per mercati, collezioni, musei e media. E dato che il progetto femminile viene venduto, esposto, commissionato e scambiato per somme di denaro gonfiate, sarà scartato nel giro di pochi anni in favore di qualcos’altro, qualcosa di nuovo, qualcosa di più fresco.
Le donne tornerebbero alla loro condizione di invisibilità e la loro lotta per avere voce, spazio, autonomia dovrebbe ancora una volta ripartire da zero. È nell’intrepido smantellamento del presente e dee sue implicazioni che la grande trasformazione annunciata dalla rivoluzione yin può avere luogo e trasformarsi in una condizione permanente.
Che cosa porterà con sé la rivoluzione yin? Non lo sappiamo. Ma sappiamo che è problematica, confusa, complessa e collaborativa. E che ci trasformerà tutti.
Immagine di anteprima: ritratto di Gertrud Kleinhempel, © Historisches Museum Bielefeld, in mostra a "Against Invisibility"
- Ursula K. Le Guin, No Time to Spare, 2017
- The hidden women of architecture and design
- Ursula K. Le Guin, No Time to Spare, 2017
- Ursula K. Le Guin, No Time to Spare, 2017
- Chus Martínez, “But Still, Like Air, I’ll Rise”, in e-flux journal 92, June 2018
- Chus Martínez, “But Still, Like Air, I’ll Rise”, in e-flux journal 92, June 2018