Cyberpunk è stato il primo. Poi sono arrivati dreadpunk, dieselpunk, solarpunk, rococopunk. Tutti tentativi di circoscrivere generi ed estetiche del fantastico, nati dagli anni Ottanta in poi. Per esempio lo steampunk è un genere antitetico al cyberpunk di ambientazione vittoriana, il whalepunk un suo sottogenere in cui l’olio di balena è essenziale per muovere i motori e le macchine, non il vapore. E così via. Tutti comunque accomunati dal suffisso -punk, che è rimasto come una firma, ma ha perso il senso originario – quello di un mondo ad alto tasso tecnologico in cui i protagonisti si muovono nei bassifondi: questo era il cyberpunk come l’ha reso celebre Neuromante di William Gibson, pubblicato nell’84.
Nasapunk, la nuova estetica dell’esplorazione spaziale
Starfield, uno dei videogiochi più attesi degli ultimi anni, rielabora l’immaginario della Space Age, costruendo un’iconografia tutta nuova e in profondo dialogo con il nostro presente.
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- Alessandro Scarano
- 01 settembre 2023
Starfield e il “NASA-punk”
Ultimo arrivato di questa eterogenea famiglia è il nasapunk, che rilegge l’iconografia dell’epoca d’oro dell’esplorazione spaziale del Novecento riscrivendo il suo spirito utopistico e la forte componente materica delle attrezzature dell’epoca in un immaginario digitale. Il nasapunk è infatti stato creato a tavolino come riferimento dell’estetica di un nuovo videogioco, Starfield. Attesissimo, perché è la prima nuova proprietà intellettuale (potremmo volgarizzare in “il nuovo universo”) lanciata da 25 anni a questa parte da Bethesda Game Studios. Uno studio di sviluppo che è una istituzione del videogioco di ruolo d’azione, celebre per la serie fantasy Elder’s Scroll (di cui tutti conoscete il capitolo intitolato Skyrim, il settimo videogioco più venduto di sempre) e quella postapocalittica Fallout. Fallout 4 al giorno del lancio, nel 2015, aveva incassato 750 milioni di dollari (non è un termine di paragone, ma è dieci volte più di quanto fatto da Barbie).
Starfield è molto atteso anche perché nel 2021 Microsoft ha comprato ZeniMax, l’azienda proprietaria di Bethesda, per 7 miliardi e mezzo di dollari (non molto meno di quanto speso da Disney per Lucasfilm). Starfield, che è stato annunciato nel 2018 ma alle spalle ha un decennio di gestazione, è il primo grande lancio dopo quell’acquisizione, fondamentale per le strategie di Redmond nel gaming, cruciale per ravvivare lo stato di salute della next-gen delle console Xbox e iniettare forze nel Netflix dei videogiochi di Microsoft, il Game Pass.
Perché tutti parlano di Starfield
Ma che cos’è Starfield? Di base è un gioco di esplorazione spaziale. Ma uno che vuole arrivare là dove nessun giocatore è mai arrivato prima. Per un motivo preciso: è gigantesco. Si parla di 100 sistemi solari esplorabili, con circa 1000 pianeti. Tutti accuratamente disegnati (un gioco lanciato qualche anno fa, No Man’s Sky, simile nell’impianto, usava invece un sistema procedurale automatizzato per la costruzione dei vari mondi di cui si popolava via via). Starfield arriva sulla scia di un momento di rivitalizzata popolarità dell’esplorazione spaziale, tra lanci di SpaceX e l’India che atterra sulla Luna. Il mondo del design e dell’architettura è direttamente coinvolto e anche l’ultima Triennale, curata dall’astrofisica Ersilia Vado, era dedicata allo spazio. Todd Howard, golden boy (per sempre boy anche se 50enne) dei Bethesda Game Studios e director di Starfield, ha un modellino di SpaceX con la firma di Musk nel suo studio, racconta un lungo pezzo sull’edizione britannica di GQ a firma di Sam White.
Starfield è una esplorazione in forma di gioco di come l’umanità potrebbe veramente vivere nello spazio. Con una necessaria spruzzata di epica e utopia per dare più vitalità allo storytelling. Ma anche tanta concretezza nel design. La parola chiave, metaforicamente posta dal direttore artistico Istvan Pely sul tavolo degli sviluppatori per dare un volto a tutto questo, è appunto nasapunk. “Nelle prime fasi del progetto stavamo cercando di definire l’estetica del gioco e abbiamo coniato il termine ‘NASA-Punk’ per descrivere un universo scientifico che è concreto e familiare”, ha spiegato l’art director a Xbox Wire, il canale stampa ufficiale del reparto gaming Microsoft. Il nasapunk, creato con lo zampino della Nasa, riporta agli anni tra i 50 e i 70, quando lo spazio era frontiera di conquista, riflesso extraterrestre del conflitto tra le due superpotenze Usa e Urss che correva in parallelo alla corsa agli armamenti e alla crescita della tensione per la guerra fredda. Tutto questo però in Starfield non c’è: è rimasto l’entusiasmo un po’ western di quella sfida. E un’estetica che conosciamo.
Ritorno alla Space Age
Ecco quindi in Starfield navi stellari grandi e meno grandi che ripropongono linee e motivi di quelle delle missioni Apollo, con una rielaborazione istintivamente realistica, eppure capace di staccarsi dal modello originario. E poi bottoni fisici, tanti comandi tattili e molte poche interfacce futuristiche o semplicemente touch. Anche le tute spaziali sono tutt’altro che minimali, avvolgono i personaggi come armature, ne ridefiniscono i corpi. Negli interni e negli esterni le navi spaziali ricordano quel tocco ingegneristico un po’ sporco che si vede nel capolavoro scifi di Christopher Nolan Interstellar, in cui il protagonista Joseph Cooper interpretato da Matthew McConaughey si muove in ambienti di navicelle che sembrano uscite da un’officina meccanica e non dal sogno confortante, lucido e senza angoli retti elaborato da un Midjourney del caso. Ma i riferimenti possono essere anche i primi film della serie Alien, l’anime cult Planetes, la serie di Apple For all mankind sui pionieri dello spazio e ovviamente l’imprescindibile 2001 di Kubrick, uscito lo stesso anno dell’allunaggio.
Lo sforzo di Pely e degli sviluppatori Bethesda è stato andare oltre alle estetiche che hanno ridefinito la scifi più classica negli ultimi anni, nei film, nelle serie e soprattutto nei videogiochi, con la celebratissima trilogia di Mass Effect e il già citato No Man’s Sky presi come esempio di una rappresentazione fortemente astratta e da evitare a tutti i costi. La fisicità alla base dell’estetica del nasapunk per Pely ha anche il ruolo di ancorare il giocatore mentre la narrazione di Starfield lo solleva verso l’ignoto e oltre. In qualche modo questa estrema matericità fa da contrappeso all’alto livello spirituale del gioco, che – ha spiegato l’art director – è attraversato da un costante dubbio sull’esistenza di vita extraterrestre da qualche parte dell’universo.
Anche le grafiche giocano un ruolo importante in Starfield. Da quella minuziosa e complessa dell’orologio, una sorta di smartwatch che fornisce informazioni essenziali al protagonista e quindi al giocatore, il cui quadrante appare in sovrimpressione costante sullo schermo, a quelle dei cartelloni e delle decorazioni per esempio di New Atlantis, che richiamano l’immaginario degli anni del boom del dopo guerra e talvolta strizzano l’occhio direttamente al logo della Nasa e all’identità visuale dell’agenzia aerospaziale americana.
Esplorando Starfield
Ovviamente un grosso lavoro per chi ha disegnato il gigantesco universo di Starfield è stato trovare varianti e stratificazioni che non lo facessero sembrare fatto con lo stampino, pur mantenendo una vibrazione di fondo coerente. Un esempio è sicuramente dato dalla progettazione delle città. Nella principale, New Atlantis, elementi nasapunk e midcentury modern si fondono con un certo qual tocco parametrico che caratterizza il design di alcuni edifici (alcuni sembrano disegnati da Zaha Hadid). Tutto accompagnato da un uso importante di palettature calde e tinte chiare. Le citazioni sono tante e nella città, la più densa che lo studio abbia mai creato, si riconosce per esempio un hub aeroportuale chiaramente ripreso dall’architettura americana di metà novecento. Che sta accanto a edifici in stile anni Cinquanta e altri ancora. Ma come le vere città, New Atlantis è una stratificazione, come ha spiegato Pely. “Non può essere la visione di un singolo progettista, perché sembrerebbe falsa, sembrerebbe un parco a tema”.
In Starfield, il giocatore viene immerso nella complessità. Oggetti complessi, paesaggi naturali e artificiali complessi e città multilivello dialogano con un sistema di interfacce, impilate l’una sull’altra come matrioske, che è puntiglioso e organizzato in apparati grafici tanto minuziosi quanto minuti. Cartelli pop-up tengono il giocatore costantemente aggiornato informandolo sul mondo che esplora e le scelte di dialogo sono come note a piè di pagina dello schermo. Questa complessità anche verbosa appare in divergenza con la tecnologia a cui ci siamo abituati negli anni dello smartphone, che anzi prediligono l’icona colorata, l’emoji, la semplificazione assoluta del design. Attenzione però, perché sotto questa apparenza, Starfield è in realtà un gioco intuitivo e tutto sommato lineare, in cui apparati visuali complessi fino a sembrare arzigogolati si dischiudono intorno a un sistema di gioco che risulta presto familiare, a dinamiche certo non inedite per un titolo che ha grandi obbiettivi commerciali, si innesta insomma in un solco ben battuto, mentre una storia accattivante ma non proprio originalissima viene scandita da musiche fin troppo epiche. In tutto questo, il Nasapunk è una carrozzeria di lusso, con una complessità che crea effetti paradossali, come quando il/la protagonista si aggira avvolto/a dalla sua tuta con tanto di casco in città dove non ce ne sarebbe bisogno (c'è un comando per evitarlo ma è sepolto nei submenù), o mentre crea traiettorie del tutto insensate, ma in effetti efficaci, per sposarsi in un contesto urbano multilivello come New Atlantis. Cliché del gaming, certo, ma che sminuiscono in qualche modo il lavoro sulle estetiche di Pely e dei suoi collaboratori.
Tutte le immagini courtesy Bethesda. Per la stesura di questo articolo Bethesda ha fornito a Domus un codice Steam per provare Starfield.