Creare con l’AI? Il bello sta nell’errore. E nel diverso: l’abbiamo imparato al Sónar

Da sempre, il festival di Barcellona non è solo musica, ma anche innovazione, arte, tecnologia e “cultura elettronica”. E quest’anno il tema, attualissimo, era l’intelligenza artificiale. Ve lo raccontiamo insieme ai suoi protagonisti, Daito Manabe, Weirdcore e altri.

di Alessandro Scarano

In un piccolo anfiteatro con affaccio sulla strada illuminata dal sole di giugno che separa la storica Fira Montjuic di Barcellona dal vicino Pavelló Italià, un gruppo di persone segue la presentazione di nuovi strumenti musicali potenziati dall’Ai (Waive Studio) e di artisti creati virtualmente, con il lancio di una nuova piattaforma di condivisione di tecnologie supportata dal governo olandese, Open Culture Tech. Al piano inferiore, negli ampi spazi della project area, l’artista 3D londinese Dan Hoopert mostra su grande schermo i suoi progetti di sperimentazione generativa legati a immagini e suoni.

Lo stage +D, dove si alternavano show e talk. Foto di Nerea Coll

Dall’altro lato della sala c’è la “scatola nera” di Weirdcore e Aphex Twin, che si attiva in un universo di immagini in realtà aumentata se la inquadri con il cellulare. Tutto intorno, spazio per la presentazione di progetti, da quelli degli studenti (tra cui il bellissimo Other Matter) alle indagini sulla tipografia delle macchine del designer Giapponese Yuichiro Katsumoto al centro di supercomputing di Barcellona. C’è Enakd, una interfaccia che legge le onde cerebrali con un caschetto per creare visual e poesie. E poi una sezione dedicata ai sintetizzatori e in una saletta laterale, 12 progetti VR del programma Realities da vedere indossando il visore. Ai piani superiori talk e panel, e anche show, che si intersecano con la programmazione diurna del Sónar, il grande festival internazionale di “Musica, Creatività e Tecnologia” che quest’anno festeggia il trentennale. 

Universal Everything per Hyundai

Questa sezione si chiama +D ed esiste ufficialmente da una decina di anni, ovvero da quando il Sónar, noto come festival di musica elettronica e sperimentale, forse il più celebre in Europa, ha trasferito la sua parte diurna alla storica Fira Montjuic. Per capirlo, bisogna fare un passo indietro nel tempo, spiega a Domus Antonia Folguera, che di +D è la curatrice delle ultime sette edizioni. 

Nel 1994 il Sónar nasce nel centro culturale Cccb, in quell’incredibile melting pot che è il quartiere del Raval, che ne ospitava la parte diurna – sconfinando nel Macba, l’altra celebre istituzione culturale e museale del Raval. Fin da subito, non si rivolge solo al pubblico, ma anche ai professionisti del settore. Quella parte, che a un certo punto prende il nome di Sónar Pro, cresce e si allarga con installazioni artistiche e una programmazione cinematografica, che poi si concentrerà sulla realtà virtuale. “Era una occasione per parlare di quella che ai tempi veniva definita come ‘cultura elettronica’”, spiega Folguera. Ai tempi una nicchia, un’avanguardia. 

Robotype di Yuichiro Katsumoto

Sónar +D si muove nel territorio condiviso di scienza, tecnologia, arte e musica. Negli anni ha esplorato temi che poi ricorsivamente tornano. Come l’intelligenza artificiale, che è la grande protagonista di quest’anno. “Con il boom di Midjourney e chatGpt era una scelta ovvia”, commenta la curatrice. Ma di machine learning e deep learning se n’era parlato già tanto negli anni passati. 

Parlando con Domus, Folguera scoperchia non uno, ma tre vasi di Pandora. Che dietro le cartoline di Gaudì e della Rambla, i weekend del 2 giugno al Primavera Sound e le comitive di pensionati che sciamano dagli Easyjet verso la Sagrada Familia in tutti i giorni dell’anno, Barcellona è città di innovazione, culla di startup, casa della più rilevante fiera dedicata al mobile del mondo (il MWC) e sede dell’ipertecnologico Centro Nacional de Supercomputación; secondo, come un festival musicale privo di una programmazione culturale oggi sia un’operazione fine a se stessa, come del resto puzzano di camera mortuaria tutti quei soporiferi eventi che pretendono di avere uno spessore culturale ma non ci fanno divertire con arte, creatività o musica; infine, è più facile parlare qui al Sónar del tema dell’anno, che non alla pomposissima e molto dispersiva Design Week milanese, dove pochi sporadici esperimenti di creatività con l’Ai venivano affogati nella mestizia di un megaevento dove un profluvio di tavolini e seggiole schermava lo sguardo su ogni orizzonte di urgenza presente, futura e passata. 

Il bello sta nell’errore

Nell’anno in cui l’Intelligenza Artificiale è stata protagonista dell’attualità e sempre più esplicitamente parte delle nostre routine, sono tanti i progetti qui a Sónar che la impiegano, la analizzano e perché no, criticano. “È importante demistificare, quando parliamo di Ai, sottolinea Pau Garcia, Ceo di Domestic Data Streamers, studio di “info-esperienze” che in un decennio di esistenza ha creato progetti di racconto digitale con i rifugiati, con le donne vittime di violenza, sulle memorie della dittatura spagnola. Per Garcia, l’Ai è certamente uno strumento, ma bisogna fare attenzione agli esiti di un sistema che tende a creare standard, marginalizzando quindi chi nello standard non rientra. 

Che la complessità sia fondamentale nell’approccio all’intelligenza artificiale viene ribadito anche da Joel Gethin Lewis, qui a Sónar per presentare sei diversi progetti di Universal Everything, collettivo di progettazione digitale con collaborazioni all’attivo che vanno da ZHA ai Radiohead, da Hyundai ad Apple, e di cui Gethin Lewis è interactive creative director. Durante il suo keynote preferisce usare termini come “machine learning” o “sistemi generativi” anziché Ai. E parlando con Domus esorta a non scadere in logiche binarie quando ragioniamo. Non lo fanno neanche i computer, spiega.


Anche la celebrazione del trentennale di Sónar passa attraverso l’uso dell’Ai. Il progetto di Sergio Caballero, co-fondatore e co-direttore del Sónar, collocato in un cubo nero, condensa trent’anni di immagini di Sónar in 39 minuti in loop di installazione video immersiva. Usando l’Intelligenza Artificiale, ha fuso in nuove sequenze le campagne pubblicitarie del passato del Sónar, spesso controverse, sempre d’impatto, creando nuove figure ibride e talvolta mostruose, sogni fluidi in cui umani e macchine, animali e mobilio si fondono sullo schermo sulla musica composta da Fennesz ed echeggiano nei grandi poster che si vedono in città. Sono il risultato di 29 sessioni di addestramento e di svariati errori. “È nella bellezza di questi errori che Sónar ha trovato le immagini per il suo trentesimo anniversario”, si legge sulla presentazione del progetto.

Oltre i corpi, dentro gli ologrammi

Daito Manabe

“Bisogna trovare il modo sbagliato di usare le cose, come fanno gli artisti dello scratch con il giradischi”, dice a Domus Daito Manabe. Il giapponese potrebbe essere l’artista quintessenziale del Sónar +D: musicista e performer, artista visuale e programmatore, co-fondatore di Rhizomatiks e docente alla Keio University SFC. Qui al +D, nello stage dove talk e spettacoli si alternano a pochi metri da altri palchi dove danze forsennate uniscono sessantenni truccate in stile Euphoria con bambini che ballano senza scarpe nei recessi dell’area vip, neo-goth che twerkano con neo-maggiorenni al loro primo festival post-Covid, Daito Manabe si presenta nella doppia veste di conferenziere e artista, un talk di giovedì e uno spettacolo nel pomeriggio successivo. 

Lo fermano in tanti per un selfie. Quando lo incontro io, di venerdì, si è appena ferito un dito con un coltello. Quasi paradossale, per chi in questo momento sta facendo una ricerca, spiega lui stesso, che cerca di superare i limiti del corpo. Sta lavorando a una sorta di avatar del cervello. Manabe per tutta la conversazione fissa un punto che non riesco a identificare nello spazio, sembra di conversare con qualcuno che sta guardando il futuro, non in senso metaforico, ma proprio nel qui e ora, come se da quel corpuscolo preciso che solo lui vede traesse l’incredibile visione che ritrascrive a parole. Nel ritmo spezzato dettato dalla traduzione, le sue parole sono incapsulate in lunghi frammenti che parlano di progetti futuri e schegge di passato, del momento in cui era studente di matematica e ha capito che musica e video non sono altro che file con output diversi, quindi in sostanza enti della stessa materia, delle prime prove con il machine learning di Deep Dream di Google nel 2015, dello spettacolo di musica e video della sera prima qui al Sonar, dello scenario della Life Intelligence come prossimo stadio dell’AI, degli esperimenti di computazione attraverso impulsi elettrici sulle cellule cerebrali dei ratti che sta conducendo all’università di Tokyo. “Sono annoiato dal corpo”, spiega, esibendo un simbolico cerotto sul dito ferito. 

Non sembrano annoiati dei loro corpi invece i circa 120mila partecipanti del Sónar di quest’anno. Soprattutto quando una gigantesca mano robotica si allunga su di molti di loro per scattare un selfie, e poi balene sospese a mezz’aria, costellazioni, tute spaziali che sembrano uscire da un episodio inedito della serie Metroid di Nintendo: sono alcune delle immagini di Holo, la space-opera tridimensionale che il dj svedese Eric Prydz porta al Sónar dopo averla presentata questo aprile al Coachella. Lo scenario, nell’immensa sala rasa di folla della Fira Europa Gran Via del Sónar notturno, è unica: una massa umana seminuda che ondeggia al ritmo dei bpm sparati da Prydz per arrestarsi di colpo, tirare fuori il cellulare e fissare in una memoria digitale le sequenze tridimensionali dello spettacolo. E poi riaccendere la danza. 

Sono decenni che aspettiamo gli ologrammi, molto prima dell’arrivo di Vision Pro di Apple, Burroughs e Bowie ne parlavano in una celebre intervista degli anni Settanta in cui li davano praticamente come cosa fatta. Oggi possiamo leggerli in un altro modo: come il segnale dell’incredibile crescita dei visual nei concerti, soprattutto quelli di musica elettronica. Hanno preso il posto di tutta l’immagine coordinata che ha reso così potente l’iconografia musicale nel ventesimo secolo, quando viaggiava su supporti fisici e aprire un LP significava cascare in un mondo nuovo. “Ma non dirlo ai musicisti”, commenta ridacchiando Weirdcore, in cappellino d’ordinanza e maglietta del nuovo tour di Aphex Twin, divinità di un’elettronica che da trent’anni sembra arrivare dal futuro e nome di punta del cartellone di quest’anno al Sónar (“Curo tutto il merchandising oltre ai suoi visual”, spiega lui). Insieme a Black Box Echo, che cura la parte visuale dei concerti del duo britannico Bicep, racconta nella SónarÀgora questa peculiare e tutto sommato nuova figura d’artista, che crea in tempo reale l’immagine del concerto su megaschermi, utilizzando appositi software che permettono di improvvisare su materiali che viaggiano in data center delle dimensioni di un libro tascabile. Sono per la musica di oggi quel che Duffy era per lo Ziggy Stardust di Bowie o Anton Corbijn per Depeche Mode e U2 (“U2 chi?”, scherza Weirdcore). 

I visual, un’arte sempre più importante

Il live di Aphex Twin con i visual di Weirdcore. Foto di Martini Ariel

Il lavoro di chi fa i visual esiste da anni, ma suona sempre come un qualcosa di nuovo. “Non so mai cosa Richard (Richard D. James, Aphex Twin, NdR) suonerà”, rivela Weirdcore a Domus. “Forse non lo sa neanche lui”, sogghigna. I suoi visual seguono la musica, utilizzando delle immagini preimpostate che vengono mixate e modulate al momento. “Quando ho cominciato a lavorare con lui ho speso molto tempo per capire cosa gli piacesse”. Per scoprire che a entrambi piacevano cose molto simili. Durante i live Weirdcore fa un massiccio uso del logo di Aphex Twin, che è un simbolo potente, creato nel 1991 da Paul Nicholson e oramai parte della cultura di massa con svariati account instagram che lo omaggiano.

Quest’anno sono 14 gli anni di collaborazione con James. Ma la routine non esiste davvero, in questo lavoro. “Nel nuovo tour è cambiato qualcosa”. Perché il musicista ha ribaltato l’approccio ai live. Se prima erano in crescita progressiva, ora sono onde che alternano momenti di pausa a crescendo anche devastanti. “Devo adattarmi velocemente per stargli dietro”, dice Weidcore, spiegando che si è messo a ridisegnare le sequenze per adattarsi al nuovo ritmo. Per dare un volto condiviso a Richard David James, visto che quello reale, nascosto dietro una griglia, resta nascosto per tutto il live. Perché la musica, oltre che ascoltare, la vogliamo sempre di più vedere.

Immagine di apertura: Eric Prydz, Holo. Foto di Martini Ariel

Ultime News

Altri articoli di Domus

Leggi tutto
China Germany India Mexico, Central America and Caribbean Sri Lanka Korea icon-camera close icon-comments icon-down-sm icon-download icon-facebook icon-heart icon-heart icon-next-sm icon-next icon-pinterest icon-play icon-plus icon-prev-sm icon-prev Search icon-twitter icon-views icon-instagram