Questo è un articolo di Domus 1079, in edicola a maggio 2023.
“Tra il passato nostro e il nostro presente non esiste incompatibilità. Noi non vogliamo rompere con la tradizione: è la tradizione che si trasforma, assume aspetti nuovi, sotto i quali pochi la riconoscono”. Persino il Manifesto del gruppo MIAR, il Movimento Italiano per l’Architettura Razionale pubblicato nel 1928 non risolve l’enigma di Tresigallo. Mentre decisiva è la personalità dell’uomo che in quegli anni rifondò il suo paese, poche povere case di contadini e braccianti sperduti sul volano del Po, fra Ferrara e Comacchio, in una vera città dell’utopia.
Tresigallo ricorda che gli uomini soli non possono cambiare il mondo, ma che senza i sogni resta poco.
A realizzarla, Edmondo Rossoni non chiamò quei giovani borghesi usciti dal Politecnico di Milano, ma l’ingegner Carlo Frighi, il paesaggista Pietro Porcinai, lo scultore Enzo Nenci. Tutti di Tresigallo come lui. Nato nel 1884, fin da giovane Rossoni mostrò un temperamento difficile, tanto che la strada del sindacalismo rivoluzionario apparve l’unica. Maturità classica e attivista per l’Industrial Workers of the World, redattore e poi direttore del quotidiano in lingua italiana The Proletariat, per salvarsi dagli arresti, Rossoni si trasferì prima in Francia, poi in Brasile e, nel 1910, negli Stati Uniti perché, a differenza di Mussolini, all’ombra delle grandi fabbriche vedeva il futuro suo e del mondo.
Un mondo “dove flagellare tutta l’immonda ciurma dell’affarismo coloniale, dei fraudolenti, degli sfruttatori, dei falsari, degli adulteratori, che hanno bisogno del mantello del patriottismo per nascondere la refurtiva”. Solo davanti allo scoppio della Grande guerra decise di tornare a casa per un ideale: fondere Socialismo e Nazionalismo in una nova società. Unirsi al capo dei fascisti fu dunque un passaggio obbligato, come assumere sempre più peso nel regime assieme al conterraneo Italo Balbo, due soggetti che il futuro Duce avrebbe sempre temuto.
Anche per questo, nel 1935, Mussolini nominò Rossoni ministro dell’Agricoltura e delle Foreste, pensando di neutralizzarlo con un incarico impossibile: aumentare la produzione alimentare. Rossoni, però, non era personalità da scoraggiarsi, né da prendere ordini da qualcuno che, in fondo, non stimava. All’insaputa del Duce, che ora si scriveva con la maiuscola, ordinò la ricostruzione totale del suo paese con un assetto urbanistico, industriale e architettonico ex novo. In pieno stile razionalista, ma prima ancora illuminato da un’idea di società e di cultura dove cilindri, archi e parallelepipedi sono come i colori pastello dei palazzi. Segno di una civiltà nuova dove vivere bene e prosperare liberi da tutto, perfino dal Fascismo.
Più che metafisica, una città utopica come quella di Tommaso Campanella. Soltanto con meno sole e più nebbia. Tresigallo nasceva dunque come città “di fondazione” diversa in tutto dalle altre volute dal regime. Perché le sue forme architettoniche sono l’opposto di quelle della strumentalizzazione fatta da Mussolini e anche dal Dopoguerra. L’ossessione modernizzatrice distrusse, modificò e ricostruì edifici, piazze e strade di un’Italia arretrata prima e disastrata poi, ma ancora intatta. Tutto in nome della nuova civiltà imperiale fascista e poi democratica, repubblicana e atlantica.
A differenza di entrambi, per Rossoni le “nuove città” non erano strumenti di propaganda o di speculazione economica ma luoghi centrati sulle persone, i loro ‘sogni’ e i loro ‘bisogni’. Proprio come c’è scritto sopra uno degli edifici iconici di Tresigallo, quegli stabilimenti balneari e bagni pubblici che dal 2010 sono divenuti il Palazzo dei sogni. Infranti una volta superato l’ingresso nell’orribile dizione Urban center. Il sogno di Rossoni era che Tresigallo diventasse autonoma economicamente e indipendente. Una comunità “senza feste” perché basata sulla pacifica collaborazione tra datore di lavoro e lavoratore, secondo un’idea corporativa che poco somigliava a quella di Giuseppe Bottai.
Una città coesa da visioni e obiettivi comuni, tanto che le case degli operai e degli industriali stavano vicine per superare le opposizioni di classe grazie all’architettura, generando quello che oggi, nel linguaggio dell’omologazione, si chiama positive social impact. In gran segreto, spalla a spalla con l’ingegner Frighi, Rossoni si dedicò alla sua città giorno e notte pensando a ogni singolo dettaglio: prima la strada di collegamento con Ferrara, poi le scuole, i parchi, il sanatorio per i malati di tubercolosi, l’istituto di ricamo femminile. Quindi, il primo impianto per l’acqua corrente, un hotel non banale e decine di fabbriche dove si doveva produrre di tutto: dalla cellulosa alla canapa, fino ai biscotti.
La gente si convinse presto del sogno di quello strano gerarca, che alle seduzioni notturne della capitale preferiva la Casa della Cultura o passeggiare nella piazza centrale, dove una grande fontana con quattro gazzelle ricordava le colonie dell’Italia fascista in Africa. Il successo portò in poche stagioni i residenti da 500 a 9.000, attirando l’attenzione di Mussolini anche perché qualcuno fece la spia. Abile e risoluto, Rossoni convinse il Duce che Tresigallo era un “vero progetto fascista” replicabile dalle Alpi alle Piramidi. Ebbe così mano libera fino all’inizio del 1943, quando la Seconda guerra mondiale interruppe i lavori.
Il declino culminò negli anni Settanta, con la chiusura delle fabbriche e la nuova opposizione politica, che si oppose sempre al “sogno fascista” con restauri e nuove costruzioni in puro stile romagnolo, il cui simbolo sono le porte di alluminio e i vetri scuri della CGIL. Venire a Tresigallo è un buon modo per vedere la complessità del Novecento, le sue perversioni ideologiche, la sua retorica insopportabile in bilico tra dittatura e democrazia. E anche per capire perché in Italia è ancora difficile parlare di Fascismo, il regime che trasformò i sogni in incubi, abbandonandoli come in un set cinematografico. Tresigallo ricorda che gli uomini soli non possono cambiare il mondo, ma che senza i sogni resta poco, proprio come scrisse Gianni Celati passando da qui. “Una bicicletta arrugginita in un cortile, le lenzuola tinte di pastello che si alzano al vento leggero per poi subito cadere immobili sul loro asse di gravità come in attesa della tempesta in arrivo”.