1.200 stanze, 1.742 finestre, 47.000 mq. Poi, anche 41 km di acquedotto, 120 ettari di giardino all’italiana e all’inglese con migliaia di alberi da tutto il mondo, selezionati dall’emerito botanico Giovanni Andrea Graefer, che si alternano a decine di fontane, vasche, ruscelli, pescherie, corsi d’acqua dai richiami massonici e pagani. Non ultime, singolari innovazioni come l’oggetto ‘sconosciuto’ che i funzionari addetti all’annessione del Regno di Napoli non seppero catalogare. Era un bidet.
La Reggia di Caserta non è solo il palazzo più grande del mondo, ma un vertice dell’architettura e della civiltà occidentali. Un inno al lusso e allo sfarzo, ma anche all’estetica e all’arte che, dopo le colonne, gli archi, le scale e gli affreschi, culmina nella Cappella Palatina. Decorata personalmente da Luigi Vanvitelli, estroso architetto napoletano di origini olandesi, scelto quasi per caso dopo il rifiuto, per motivi di salute, di Nicola Salvi, che si era distinto per la Fontana di Trevi a Roma.
Vanvitelli era intento ai restauri della Basilica di Loreto quando la commissione incaricata da Carlo III di Spagna, detto di Borbone, si presentò. Il sovrano era tornato da un viaggio a Versailles, inaugurata diversi anni prima, deciso a farsene una propria. Simile in tutto a quella francese, ma più grande, più bella e, soprattutto, più vicina a casa, alla sua Napoli.
Decise così di collocarla nella piana di Caserta, a 20 km dalla città, gli stessi che dividono Versailles da Parigi. Come la reggia francese, anche quella di Caserta avrebbe dovuto essere il trionfo del Barocco. L’ultimo, forse, della grande stagione italiana. Il progetto di Vanvitelli piacque molto e i lavori della Reggia partirono il 20 gennaio 1752, il giorno del compleanno di re Carlo. Nei piani dovevano concludersi in cinque anni, che però diventarono 20 e poi 93 anche se nemmeno dopo un secolo la cupola e le torri perimetrali vennero completate.
Scomparso nel 1773, Vanvitelli non fece in tempo a vedere il suo capolavoro che, per le fasi più pesanti, aveva richiesto le forti maestranze del Nord Africa. Non si chiamavano ancora immigrati né clandestini, ma barbareschi e il loro arrivo in Italia non era osteggiato dalla politica, ma anzi favorito dalla legge finché, alla fine del XIX secolo, il dominio francese in Algeria ne bloccò l’afflusso. Questo cambiò molte cose, fra cui il destino di viale Carlo III che s’interruppe.
Vanvitelli l’aveva immaginato come una linea retta che, partendo dalla Reggia, tagliava la campagna per arrivare al Palazzo Reale di Napoli. Assicurando, dunque, al re e alla sua corte una strada veloce, sicura e riservata. Molti anni dopo aver abbandonato il progetto, nel 1843, si pensò di ricorrere a un’alternativa: una stazione ferroviaria attaccata alla Reggia, da un lato dell’enorme spazio antistante, vuoto e bellissimo. Avrebbe dovuto supplire alla via mancata, consentendo alla famiglia reale di raggiungere la Reggia con l’ultimo lusso dei tempi, il treno.
Come ogni cosa bella durò poco. Nel 1861 Caserta venne annessa al Regno d’Italia da quegli stessi ruvidi funzionari del Nord che, fra le altre cose, non conoscevano l’igiene intima. Finiva così la villeggiatura dei Borboni alla Reggia di Caserta e con quella la tutela dell’intera area. Iniziavano un altro regno e un’altra epoca, iscritti sotto un’estetica di segno diverso: il “territorio negato”, il “consumo del suolo”, che dagli anni dello Stato unitario avrebbe attraversato il Fascismo, le guerre, la ricostruzione per arrivare ai nostri giorni, che trovano un simbolo perfetto nell’immenso parcheggio ipogeo davanti alla Reggia: un involucro sotterraneo in cemento armato, a cui si accede da volte in plexiglas e scale da stadio. Un’idea che anche Gilles Clément avrebbe fatto fatica a definire Terzo paesaggio.
Capoluogo di provincia, ma centro di medie dimensioni (76.126 abitanti), il comune di Caserta nel 2018 presentava il 24,5 per cento di suolo consumato rispetto alla superficie territoriale. Molto più della media della regione, che nello stesso anno era del 10,54 per cento. Il Piano territoriale di coordinamento provinciale (PTCP) individuava 194 siti dismessi, per un totale di circa 483 ettari, di cui i più critici legati in gran parte al patrimonio militare abbandonato. La più impressionante è il cosiddetto MaCRiCo (Magazzino Centrale Rimessa mezzi Corazzati). 500.000 m2 di caserme, hangar, magazzini, alloggi militari dispersi su un’area di 33 ettari oggi dell’Istituto diocesano per il sostentamento del clero.
Espropriata e adibita a usi militari dal 1854, riconsegnata dal ministero della Difesa alla proprietà nel 1984, da allora l’area versa in stato di degrado che ne impedisce qualunque fruibilità nonostante la posizione. Strategica, ma che trasforma la Reggia in una congiunzione architettonica tra il centro storico e l’espansione urbana recente. A queste latitudini, consumo del territorio, iperdensità demografica e processo di deindustrializzazione toccano vertici europei e si oppongono al valore storico e archeologico di questi luoghi, che è altissimo e unico e fonda l’identità italiana oltre che il patrimonio dell’umanità.
Il caso più noto è Pompei, piccolo comune che ospita il parco archeologico più grande e famoso del mondo. Creato il 29 marzo del 1928 con una legge speciale firmata da Vittorio Emanuele III, insignito del titolo di città dal 2004, Pompei o meglio la “città nuova”, è un centro turistico e religioso di interesse mondiale, che oggi ha due numeri che dicono tutto: 25.000 residenti dal reddito medio di 9.245 euro pro capite. Cittadini che non sono liberi di mettere un gazebo davanti a un negozio, portare una bancarella in strada e meno che mai aprire una finestra, tanto rigida è la regolamentazione per tutelare la “città vecchia”: quei 63 ettari di scavi la cui storia è comunque una serie di incongruenze, commissariamenti, leggi speciali. Almeno fino alla nomina dell’attuale direttore, Gabriel Zuchtriegel, vincitore del concorso promosso dal ministro Franceschini a cui si oppose buona parte dell’intellighenzia conservatrice. Di destra come di sinistra.
Capace di attirare 2.972.000 turisti nel 2022, al terzo posto dopo Colosseo e Uffizi, il Parco archeologico di Pompei non è, però, né a Roma, né a Firenze e nemmeno a Napoli. Resta all’interno di un piccolo comune definito da una vicenda di sviluppo controversa, dove l’ossessione regolatoria delle amministrazioni locali è lo specchio della difficoltà di operare scelte urbanistiche, economiche ed estetiche lungimiranti. Persino da parte di chi quel patrimonio lo dovrebbe tutelare per missione istituzionale, come la Soprintendenza che, nel 2019, per i propri nuovi uffici edificò una palazzina di tre piani a Porta di Stabia.
I social impazzirono, i media parlarono di ‘ecomostro’ e ‘bunker’. Uno scandalo da 5 milioni di euro che deturpava quel paesaggio che avrebbe dovuto tutelare. Massimo Osanna, archeologo raffinato, all’epoca, direttore generale del Parco archeologico di Pompei, rassicurò tutti. Avendo espletato le procedure previste dalle norme urbanistiche e paesaggistiche, ottenendo parere positivo dal MIBACT in merito alla compatibilità dell’intervento per la tutela del patrimonio culturale, la nuova costruzione era a posto. Avrebbe previsto colorazioni non invasive, ampie vetrate e verde di contorno. L’edificio è ancora lì, visibile ai milioni di visitatori della Casa dei Vetti o agli altrettanto numerosi pellegrini del Santuario della Beata Vergine Maria del Santo Rosario. Ognuno libero di rispondere se i vincoli per la sua tutela del paesaggio valgono per tutti.